Charlie e gli Stones: come batte (forte) il tempo

E’ perfino banale dirlo, ma è giusto ricordarlo proprio oggi a imperitura memoria: dietro a una grande band, c’è sempre un grande batterista. E oggi se ne è andato il migliore: Charlie Watts, 80 anni, l’altra faccia dei Rolling Stones, l’alter ego di Jagger e Richards. Ma come ammise, con un certo candore, lo stesso Richards: “Molti pensano che gli Stones siano Jagger e Richards, ma non ci sarebbero gli Stones se non ci fosse stato Charlie Watts”. Sir Charlie. Batterista atipico, più roll che rock, non menava colpi al centro delle pelli, ma l’uso del rullante (ad esempio) – il suo personalissimo uso – è il valore aggiunto di una manciata di canzoni dei Rolling Stones. Una su tutte: Gimme Shelter. Provate a eliminare il rullante di Charlie e la canzone s’impoverirebbe così tanto, da risultare irriconoscibile. Lo pensavamo, come gli altri della band, immortale. L’abbiamo scoperto mortale. Proprio quando gli Stones stavano per lanciare l’ultima appassionante sfida al tempo che scorre: un nuovo tour “dimentico” di acciacchi vari di esponenti di un certo livello della terza età e con un peso anagrafico tutt’altro che irrilevante. Charlie, molto più umano e meno star dei suoi ultracinquantenari compagni di viaggio, ma non meno protagonista. Senza bisogno solo di ricorrere ai silenzi e affidarsi eventualmente al proprio ruolo ritmico nella band. Perché Charlie parlava. E anche quando non lo faceva con la musica, sapeva essere tagliente. Sapeva incidere nel vivo anche sull’ego di Jagger e lasciarlo senza parole. Quando Mick gli chiedeva: “Ma è vero che te ne vai dalla band?”. E lui: “Not true”. Senza aggiungere un’altra sillaba alla telegrafica risposta. Era l’anti Stones (almeno nello stile di vita), pur essendo a pieno titolo uno Stones. Poche droghe, un solo passaggio con l’eroina già in età matura negli anni 80 immediatamente archiviato (e Richards che con il suo solito stile: “Non è mai troppo tardi per cominciare”), sesso solo con una sua moglie Shirley e un rock’n’roll speziato dalla formazione jazzistica che non aveva mai abbandonato come sentiero per un’altra vita musicale o solo per una scappatella. Un look da lord inglese che gli è valso il riconoscimento di Vanity Fair. Non girava mai sbracato, ma sempre tirato a lucido. Come quella notte in cui Jagger, al culmine di un party notturno, esagerò, lo chiamò al telefono e disse: “Dov’è il mio batterista?”. Lui mezzo assonnato, si vestì in fretta, ma senza nemmeno un capello fuori posto e con due gocce di acqua di Colonia, si presentò alla porta di Jagger, rifilandogli un cazzotto: “Non sono il tuo batterista, sei tu il mio cantante”.

Che il tempo gli si stesse stringendo attorno, l’avevamo capito qualche settimana fa, quando aveva annunciato che non avrebbe partecipato all’ultimo tour degli Stones. Che la situazione sarebbe precipitata in così poco tempo, nessuno poteva pensarlo. O solamente immaginarlo. Anche perché una battaglia con la malattia l’aveva già vinta diciassette anni fa (cancro alla gola). Il cuore – pare – che sia arrivato a presentargli il conto. Senza tanto preavviso poi e dopo un’operazione chirurgica d’emergenza. “Per una volta sono andato fuori tempo”, aveva detto quando era stato costretto a rinunciare alle prove per l’imminente tour degli Stones. Ci aveva scherzato su, anche perché quella poteva essere solo una battuta. Ha sempre battuto il tempo dei Rolling Stones in modo netto, nitido, senza mai una sbavatura. E battendo il tempo musicale, ha battuto anche il tempo delle nostre vite. E anche per questo ci illudevamo che fosse immortale.

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Perché sono state (davvero) Notti Magiche

Faceva un certo effetto, ieri notte, sentire i calciatori della nostra Nazionale cantare “Un’estate italiana”. Che poi tutti conoscono per quel ritornello che si stampa nel cervello e non ti lascia più: notti magiche. Un certo effetto perché molti di loro (la maggior parte) – come ha ricordato Niccolò Barella alla giornalista – nel 1990 non erano nemmeno nati.

Roberto Mancini sì, perché di quella Nazionale “plasmata” da Azeglio Vicini faceva parte. Anche se non scese mai in campo. Sono dettagli fondamentali questi per raccontare il Mancini commissario tecnico, le notti magiche appena vissute e quel debito col passato che è stato finalmente chiuso. In queste settimane i paragoni tra Mancini e gli altri commissari tecnici, anche quelli del Pantheon (da Pozzo a Bearzot), si sono sprecati. Ma c’è un commissario tecnico di cui ci siamo dimenticati, forse fin troppo in fretta. Che trattò Mancini (e i suoi compagni di quella stagione magnifica ma poco fortunata) come figli: Azeglio Vicini, appunto. Vicini prese la nazionale maggiore dopo la cocente delusione dell’Italia di Bearzot che aveva finito (malamente) il suo ciclo ai mondiali di Messico del 1986. Non era facile ricostruire, si affidò al suo gruppo quello che aveva cresciuto nelle nazionali giovanili, prendendosi anche dei rischi. E portò nel giro di due anni l’Italia due volte in semifinale: agli Europei del 1988 e ai mondiali italiani nel 1990. Nel frattempo quei calciatori erano cresciuti, compattandosi in un gruppo, dove c’erano talenti, ma dove anche il commissario tecnico sapeva tenere a bada le esuberanze (all’epoca dello stesso Mancini calciatore). Ecco, uno dei riferimenti cultural-calcistici del Mancini commissario tecnico è sicuramente Vicini. Lui, anni dopo, trovò le macerie, più o meno come quelle del 1986 (forse una situazione ancora peggiore perché non avevamo centrato nemmeno la qualificazione ai mondiali). Mancini ha costruito, tassello dopo tassello, la sua e la nostra Nazionale, prendendosi dei rischi, puntando su parecchi debuttanti (o quasi), scommettendoci sopra e dando a loro un’ampia fiducia. E così si è preso anche delle rivincite, da allenatore, rispetto a quello gli era successo da calciatore. Soprattutto in nazionale.

Cosa c’entra, al di là dell’aspetto tecnico, tutto questo con le Notti Magiche finite poi male nel 1990? Che all’inizio di quel decennio che sarebbe poi stato un decennio di trasformazione inimmaginabile allora, con un cambio di passo significativo per la storia (la caduta del Muro e del blocco dell’Est, la dissoluzione della Jugoslavia), per la società (dall’era analogica a quella digitale), avevamo il coraggio di sognare. Di sognare dappertutto. Non solo nel calcio. E così si torna a Mancini. Quando nell’estate del 1990, con il gemello del gol Gianluca Vialli, sono in vacanza a smaltire la delusione di quel mondiale (Mancini da spettatore, Vialli da protagonista in formato Godot, sempre atteso ma mai arrivato), pianificano quella che resta, trent’anni dopo, la più grande impresa calcistica in serie A. Lo scudetto della Sampdoria. Sembrava impossibile e invece la Sampdoria riuscì a mettersi dietro le grandi, tirando fuori le stesse caratteristiche che abbiamo visto in questa Nazionale di Mancini: un’unità di gruppo granitica, una certezza nel sogno, anche impossibile, difficile da scalfire di fronte a ostacoli e avversità . Basta? Basta probabilmente e quest’Europeo l’ha dimostrato. Mai smettere di sognare se si ha piena consapevolezza dei propri mezzi e di quale sia la propria forza. E per quanto Mancini sembri devoto alla concretezza, almeno nelle interviste, è un sognatore. Sognatore, con i piedi ben piantati a terra. Gli basta alzare un tacco, come faceva da calciatore, per realizzare sogni e capolavori. E infine, per quanto sembri azzardato, dopo un percorso di crescita a dir poco sorprendente (dalle intemperanze da calciatore alla calma rassicurante e potente da allenatore), Mancini vive (ora e finalmente) della stessa fama di Clint Eastwood nel cinema. Roberto ormai più bravo (e vincente) da allenatore che da calciatore, nonostante sia stato comunque un campione. Così come Clint: grande attore, ma ancor di più magnifico regista. E per costruire delle storie vere, che sembrano anche dei magnifici film, proprio come quello che abbiamo appena visto e vissuto, serve sempre un grande regista.

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Raffaella e i (nostri) sabato qualunque

Erano dei sabato qualunque. Ma ci sembravano bellissimi. La libertà, allora, era spingersi a restare svegli davanti al televisore fino alle 22,30. Poi si filava a nanna. In questi sabato qualunque Raffaella Carrà era la nostra guida. E non sapevamo nemmeno che cosa c’eravamo persi prima. Perché la nostra generazione è sospesa tra i due secoli: quello (seppur) breve, da romanzo, il Novecento e quello immediato, in cui siamo appena entrati e facciamo ancora fatica a decifrare. L’esatto confine tra l’analogico e il digitale. Bravi a smanettare ora con gli smartphone, quanto insidiati dall’invadente televisione allora. Siamo nati col televisore in casa. Mentre si affrancavano le tv private, quella di Stato dettava ancora l’agenda del sabato sera. Con il varietà: forma d’intrattenimento assai irriproducibile ora, ove tutto è diventato così liquido e sgusciante, da non riuscire a prendere una forma. Allora il varietà lo incarnava Raffaella. E Fantastico era l’appuntamento fisso del sabato. La famiglia si piazzava davanti al televisore che era diventato a colori e che poteva essere manovrato a distanza, col telecomando, proprio perché l’offerta stava crescendo. E non si limitava solo ai primi tre canali ormai. Raffaella, bionda, simpatica, una di casa. Una che vedevi, anche a casa del nonno, ma sulla copertina di Tv sorrisi e canzoni, che stava per rinnovare il contratto con la Rai. Ma non l’aveva ancora fatto. Perché lusingata altrove, tanto (quasi) da scatenare una crisi politica sul fatto se fosse giusto pagare con una vagonata di soldi pubblici una conduttrice/ballerina/cantante o forse showgirl. Sei miliardi di lire in tre anni: due miliardi all’anno. Era il 1984: Ettore Bernabei, l’uomo di quella Rai, quasi non riusciva a dormirci di notte, al pensiero di quel contratto. Che poi fece firmare alla Carrà. E così Fantastico poteva continuare, l’assalto di Berlusconi era solo rimandato. Rimandato, appunto, perché quando la Carrà passa alle reti Fininvest nel 1987, ci sembra un tradimento. Doppio, perché con lei se ne va anche Pippo Baudo. Crollano le nostre prime certezze. Di sicuro, fino ad allora, c’erano Fantastico con Baudo o con la Carrà, la cotoletta impanata del sabato sera, con le patatine fritte (fatte a mano quando andava bene, surgelate quando le offerte dei supermercati avevano già invaso le nostre case e il televisore) e la messa della domenica (meglio alle 11, per dormire almeno fino alle 9).

Siamo cresciuti, con Raffaella. Ci sembrava l’innocente evasione del sabato rispetto alla vita da bambini. Col tempo ci saremmo accorti che quei sabato qualunque non sarebbero tornati. Che l’effetto nostalgia avrebbe travolto il disincanto di fronte a una televisione che non univa più. Perché, nel frattempo, i televisori in casa raddoppiavano. Non solo l’esemplare nel tinello, ma un altro in camera, un altro in sala. E mentre l’offerta televisiva aumentava, la scelta del programma da vedere non era più unitaria, non era più familiare, era sempre più parcellizzata. Abbiamo scoperto però, col tempo, anche un’altra Raffaella. Quella che, per la nostra (tenera) età allora, c’era sfuggita. Non la più amata dagli italiani solo perché lei stessa lo recitava nella pubblicità di un’azienda di cucine. Ma amata (e invidiata), ripensando all’ombelico scoperto di qualche anno prima, non tanto (e solo) per il suo lato erotico, ma per la portata del gesto in sé. Di quel ballo, “Tuca Tuca”, il cui ritornello era entrato nelle nostre teste e che aveva sfidato la censura in un’Italia ancora troppo perbenista e ancorata a un mondo che era già trapassato. O ancora, c’eravamo persi, la Raffaella che, prima di essere immortalata (sfruttando il furbo remix di Bob Sinclair) da Sorrentino ne “La grande bellezza”, cantava che nei nostri letti (e non solo lì) avremmo potuto fare all’amore come ci pareva. E perfino nell’ultimo decennio del secolo breve, tra una canzone dei Nirvana e dei Red Hot Chili Peppers, s’infilava ancora lei, con i suoi tormentoni. Con i suoi pezzi facili, ma altro che trash. Altro che vergogna nel canticchiare le sue canzoni che in Spagna, in nome di una liberazione pressoché definitiva quanto meno dal franchismo e dagli ultimi suoi residui, avevano già sdoganato. La Carrà è parte integrante del nostro romanzo di formazione. E anche quando tornò, quasi all’alba del secolo nuovo, con quella trasmissione, “Carramba”, troppo ammiccante con i generi varati da quelle che, un tempo, si definivano tv private; ci fermammo a guardarla. Anche solo per vederla, con Elio e le Storie Tese, cantare la “Presidance”. Senza perdere un grammo di ironia. di forza, di sicurezza. Ancora di sabato. Ancora dei sabato qualunque. Perché il peggio sembra(va) essere passato. Almeno per un’altra settimana.

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Questo sentimento popolare

Ricordo la radio, appoggiata sopra una credenza. E quella canzone passata con insistenza – era il 1985 – dall’emittente locale. Cantava perfino mia madre. Che era immersa in ben altri pensieri in quell’anno del Signore così funesto, almeno dal punto di vista lavorativo, per i miei. La voce di Battiato e poi quella di Alice s’insinuavano, tracciando un orizzonte mai preso in considerazione allora. La voglia di viaggiare a un’altra velocità. Quell’Italia lì sembrava lanciata verso chissà dove. A una folle velocità, noncurante del rischio di andare a schiantarsi. Cosa che, puntualmente poi, sarebbe avvenuta. E Battiato, con Alice, cantava di villaggi di frontiere, del guardare i treni nelle strade deserte di Tozeur. Così, quasi inconsapevolmente, Franco Battiato entrò nella mia vita. E già allora, sei anni, cantavo “e per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità”. Non era il classico ritornello da canzonetta. Ma una volta entrato nella testa, non ti usciva più. E soprattutto provocava, anzi provoca ancora, quel brivido lungo la schiena che è una botta di vita. Trentasei anni dopo, poco fa, nel giorno in cui Franco Battiato è morto ho provato ancora la stessa identica sensazione. Il brivido, il benessere, la necessità di cantare a squarciagola, di urlare quello che un ritornello classico proprio non lo è. Ma non per questa ragione meramente stilistica non ti si ficca in testa e non ti lascia più. Sì, in una speciale classifica delle canzoni di Battiato, la canzone “I treni di Tozeur” rimane saldamente in testa. Anni dopo, una manciata, un lustro forse, dopo quell’ascolto insistente e obbligato dalla radio, c’inciampai in una delle più belle scene de “La messa è finita” di Nanni Moretti. Stessa identica sensazione. Ancora. La voglia (o forse necessità col tempo) di vivere a un’altra velocità. Che poi in quelle associazioni d’idee che solo la visione mistica e compulsiva di film riescono a creare, fu un attimo passare da “I treni di Tozeur” a “Scalo di Grado”.

Allora, noncurante della scena cult del film “Bianca” il barattolo extra large di Nutella, rimasi folgorato da quell’attacco: “Ho fatto scalo a Grado, la domenica di Pasquaaa”. Moretti era sulla spiaggia, intorno solo coppie avvinghiate, sopra i teli da mare. E quella canzone che, come accade per “I treni di Tozeur”, entrava forte, decisa nella mente. “Ci si illumina d’immenso, mostrando un poco la lingua”. Altro brivido, prima dell’acuto, cantato senza ritegno: “al prete che dà all’Ostia. Ci si sente come in Paradiso, cantando dei salmi un poco stonati”. E anche lì, in quella canzone, che l’unico ritornello può considerarsi il liturgico “Agnus dei qui tollis peccata (mundi miserere)”, quell’incenso e quell’immenso che quasi si toccano, a qualche strofa di distanza, alzare il tono nel momento esatto in cui si canta “mostrare un po’ la lingua”. Piacere puro, niente di blasfemo, solo a pensarlo. E canticchiarlo sì, come fosse un ritornello. Anche quello. Che non ti va più via dalla stanza. Mi è capitato di passare a Grado, niente che evocasse quella canzone. Né la Laguna, né il mare. Né lo scalo che in parte fu quello che feci anch’io, materialmente, al ritorno da Pordenone, invece di puntare verso giù, puntai verso Grado. Verso il mare. Però, anche dopo anni, non riesco a togliermi dalla testa le parole di quella canzone. In cui mi rifugio. A cui mi attacco.

E poi c’è un terzo approdo. Un altro inciampo della vita. Un inciampo di quelli belli, come nei due casi precedenti. La notte di Ferragosto, ventenne, e una cassetta (allora esistevano ancora e facevano il loro (s)porco lavoro) che gira nell’autoradio. Il nuovo secolo era iniziato da poco. I Notwist per tirare tardi. Orsi elettrici come quella musica tedesca (Electric bear) per prendersi le ultime ore della notte. Finché la cassetta fa il suo corso e arriva alla fine. Smanettando in quest’auto, non la mia, di seconda o terza mano (vintage diremmo ora), ecco “L’era del cinghiale bianco” (che all’epoca, sia detto per inciso, veniva considerato l’album-manifesto di Battiato da destra). Lo schiudersi dell’alba con “Stranizza d’amuri”. Il siciliano “E quannu t’ancontru ‘nda strata. Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori. Ccu tuttu ca fora si mori. Na mori stranizza d’amuri. L’amuri”. La scossa, non solo fisica qui, ma anche a parole, nel testo. E il benessere ancora. Un ritornello che ritornello non è. Che non ti esce più dalla testa. L’urlo liberatorio: “L’amuri”. Cantato in maniera sguaiata, forse stonata, ma vera e il sole che sorge. Alla fine, come sempre. Una canzone che resta attaccata. Che introduce la primavera, che esalta il maggio e che, stanotte nonostante tutto, nonostante la morte di chi l’ha scritta, non depone le sue armi alla tristezza.

Ecco perché Franco Battiato quel “sentimento popolare” l’ha incarnato.

I Maneskin e il (non) trionfo del rock

Ha vinto il rock, hanno vinto i Maneskin a Sanremo. E sono tutti felici. D’accordo che gli eroi sono sempre tutti giovani e belli. E loro giovani e belli lo sono. Ma eroi e perfino rivoluzionari, sembra un tantino eccessivo. Perché l’equazione Maneskin uguale rock stona assai. E permettetemi di avere, almeno stavolta, un po’ la puzza sotto il naso. Perfino il padre putativo dei ragazzi Manuel Agnelli – che giustamente hanno invitato a duettare con loro sul palco dell’Ariston – in una vecchia intervista, parlando di XFactor, il talent generatore di campioni sanremesi tanto quanto lo fu Amici nella decade precedente, diede un consiglio a loro, usciti freschi freschi dal talent: più ore in studio di registrazione a scrivere canzoni e meno a girare per sfilate. Che detto da Agnelli – che però di ore in studio di registrazione ne ha passate parecchie e per fortuna – sembra quasi una contraddizione. Insomma tra il rock e fare il verso al rock, con pose, look e riff di chitarre, ce ne corre. Ce ne corre come da Achille Lauro all’essere l’incarnazione del provocatore glam del Terzo Millennio. Non voglio passare per un reazionario: ma quello che Achille Lauro ha fatto sul palco – e poi si chiude la digressione – l’avevamo visto fare non solo fuori dall’Italia, ma anche a casa nostra almeno una quarantina di anni fa. Niente di nuovo, quindi sul palco di Sanremo. Non c’è da costernarsi, perché fedele al fatto che il festival sia il festival della tradizione, il precetto, anche quest’anno, è stato ampiamente rispettato. Non inganni la lista, non la Rappresentante, di chi è salito sul palco. Come da migliore tradizione Cencelli, la spartizione è stata rispettata: 1/3 alla scena rap, 1/3 alla variante trap, 1/3 alla cosiddetta scena indie, rischiando di scivolare nelle presentazioni sull’identità dei convenuti, 1/3 alle vecchie glorie, 1/3 abbondante ai fuoriusciti dai talent rappresentandoli tutti o quasi, 1/3 di varie eventuali, tra ritorni e affezionati del palco sanremese.

In tutto questo polpettone è mancata, almeno nei riconoscimenti significativi la melodia che poi, lo dico rischiando davvero di passare per un reazionario, rimane la cifra stilistica di Sanremo. Nonostante in vita mia abbia frequentato poco l’Ariston e molto di più i club sparsi per l’Italia. E per questo mi è parso doveroso l’omaggio che, anche i Maneskin oltre Gazzè, si sono sentiti in obbligo di fare al gruppo che più degli altri, tra Cccp e Csi, ha meglio rappresentato non solo la scena indipendente italiana, ma anche quel concetto di rock che non può essere ricondotto solo a uno stile, a un esercizio tecnico, ma è fatto invece di centinaia di concerti all’anno, col rischio di arrivare in ritardo sul palco, perché il pulmino si è rotto, perché hanno rubato l’amplificatore all’autogrill e ne va trovato uno al volo. Altrimenti come scrisse proprio Giovanni Lindo Ferretti nel bellissimo libretto di Linea Gotica a proposito del punk e di Malcom McLaren, l’alchimista della grande truffa del rock’n’roll (per sua stessa ammissione), presentando “Sogni e sintomi”: “Il resto è un mucchio di vestiti, brutti e scomodi”. Riservando poi, anche una magnifica chiosa: “Nella confusione tra sogni e sintomi, punk e moda, media e spazzatura, pogare e pagare”. E questo sia detto, non solo per inciso, vale sempre, comunque e dovunque anche per il rock. E dovrebbe valerlo anche sul prestigioso palco di Sanremo.

Tornando alla melodia e all’approccio rock, che non è solo un mucchio di accordi e vestiti, non stona invece che siano stati più convincenti i Coma_Cose e il duo Colapesce e Dimartino, che i talent non li hanno nemmeno sfiorati, ma che di strada e di viaggi notturni in furgoncino se ne sono fatti parecchi. Un bagaglio essenziale. Per tutto il resto ci sono i talent (appunto) e un Sanremo, con annesso televoto, che ne è la perfetta traduzione istituzionale. Così comunque conservatore, anche se hanno vinto i Maneskin.

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Glorifichi la vita e gloria è

Devoto. Come è giusto che sia. Di fronte a una canzone che è in sé un’invocazione a un mondo – che all’epoca – non c’era già più. La più convincente interpretazione della serata delle cover, a Sanremo, è stata quella di Max Gazzè con la Magical Mistery Band (e Daniele Silvestri) di “Del mondo”. Del mondo è una delle pietre angolari di “Ko de mondo”, il primo disco del Consorzio Suonatori Indipendenti. Un disco che è un’istantanea su un mondo che è in evidente trasformazione. Talvolta anche in maniera sanguinosa. E’ la miglior appendice musicale per provare a raccontare l’ultracitato Secolo Breve, il Novecento che va in malora e che si sgretola, inevitabilmente, con le sue certezze. Con le sue fondamenta. E’ un inno alla vita, anche di fronte alla morte. Alla vita vera, fatta – come amava e ama tuttora ripetere Giovanni Lindo Ferretti – di carne, viscere, sangue e legamenti. E Del Mondo è un classico anche senza essere annoverato tra i classici delle canzoni italiane. Prima dell’altra sera a Sanremo, ci provò Robert Wyatt, non uno qualunque, a coverizzarla. La sua voce flebile che trasuda vita vissuta -costretto ad aggrapparsi a una sedia a rotelle per rivolgere lo sguardo all’orizzonte – e che declama i versi di Ferretti che glorificano la vita, come è giusto che sia. In un Occidente che ha perso la bussola, smarrito le sue certezze, costruite inevitabilmente in contrapposizione al suo alter ego: l’Est che è già deflagrato. E l’ormai Ex Jugoslavia ridotta a carneficina di chilometro in chilometro, di confine in confine, a ricordarlo. Anche in quello splendido pezzo – sempre tratto da Ko de Mondo – di “Memorie di una testa tagliata” che è l’altra pietra angolare del disco assieme a Occidente (appunto), a “Del Mondo” e “A tratti” che ci fa piombare in un eterno presente – per citare i vecchi Cccp – che non siamo mai riusciti a a capire fino in fondo. “Non fare di me un idolo o mi brucerò, se mi trasformi in megafono m’incepperò – canta Ferretti – cosa fare e non fare non lo so. Quando dove e perché riguarda solo me”.

Ecco perché di fronte a un pezzo simile ci vuole molta devozione, quella applicata da Gazzè e soci: non serve stravolgere, non serve esagerare con virtuosismi. Già il fatto che nella notte di Sanremo, si canti, come una preghiera (come giusto che sia) sul palco dell’Ariston, una canzone dei Csi, è il modo migliore per glorificare la vita. La vita (anche) di una scena musicale italiana – che si è diffusa trent’anni fa ormai – in cui il Consorzio Suonatori Indipendenti che si tramutò, dal punto di vista della produzione di altri artisti, in Consorzio Produttori Indipendenti, fu motore instancabile. E in questo stranissimo Sanremo è come se una serie di puntini che di partenza sembrano uno distante dall’altro, si uniscano. Lo Stato Sociale che rifà “Non è per sempre” che sul finale invita a salire sul palco quelli che lavorano nello spettacolo da un anno fermi al palo. E tra di loro ci sono anche chi ha tirato le fila di club che in quella fertilissima stagione permisero all’Italia di essere (perfino) modello e scuola per altri Paesi, in cui la musica non era considerata solo un passatempo. O ancora lo stesso Manuel Agnelli, l’unico (al di là del suo fortissimo ego) che in questi anni con tenacia ha provato a rivendicare ciò che di buono si fece in quell’epoca: dal punto di vista della produzione musicale, ma anche della formazione, della creazione di figure professionali e tecniche nel panorama italiano, che avevano poco o nulla da invidiare a ingegneri del suono (e non solo) oltre Manica e oltre Oceano. Così al di là dell’inevitabile effetto nostalgia per il tempo che fu, per un Consorzio Suonatori Indipendenti che mai si rimetterà insieme (come è giusto che sia), la devozione e la messa sul palco di questa canzone da parte di Gazzè, è il giusto tributo a qualcosa che difficilmente è riproponile ora. Difficilmente tornerà. Ma che ci ricorda come eravamo. E forse, anche, come avremmo potuto essere ancora. E rimane il miglior inno alla vita. O più elegantemente una preghiera laica. Da recitare.

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DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO(considerazioni sparse sul voto a Senigallia)

DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO
CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO
(considerazioni sparse sul voto a Senigallia)

Alcune considerazioni (non richieste ma personali e dunque in piena libertà) sul voto nella mia città. Ha vinto la coalizione di centrodestra al ballottaggio perché si è dimostrata più compatta e perché il candidato Olivetti è riuscito a conquistare 2mila voti in più rispetto al Primo Turno. Ma rispetto al primo turno invece, il candidato del Centrosinistra ha perso qualcosa come 800 voti.

La matematica non è un’opinione: se tutti quelli che hanno votato al primo turno la coalizione che sosteneva Fabrizio Volpini avessero votato il candidato anche al ballottaggio, probabilmente stasera sarebbe lui il sindaco di Senigallia. Quindi domandona, anche per il futuro del Centrosinistra senigalliese: è più inquietante saper di aver perso dopo 22 anni la guida della Città o essersi accorti che nella coalizione c’è chi ha voltato inevitabilmente le spalle al candidato durante la corsa? Col sospetto legittimo, perché non conosciamo i flussi di voto tra Primo e Secondo turno, ma l’affluenza sì, che abbia disertato le urne, per restare a casa. Ma che non abbia invece cambiato sponda.
P.s. Le considerazioni di cui sopra non si riferiscono se fosse stata sbagliata o meno la scelta del candidato del Centrosinistra, ma solo a questo snodo, tra Primo e Secondo turno, che si è rivelato cruciale. Perché le macerie (e non solo) del Centrosinistra – perso ormai in invidie, gelosie e ripicche di basso cabotaggio – sono ancora più evidenti proprio in città come Senigallia.

Siamo chiusi in una scatola nera: Ustica, 40 anni dopo, spiegata ai ragazzi

Nella notte in cui Bob Marley canta a San Siro, un aereo precipita in mare, a pochi passi dall’isola di Ustica. E’ il 27 giugno 1980, quarant’anni fa. Spiegare ai diciottenni di oggi cosa è stata la strage di Ustica non è affatto semplice: loro sono cresciuti in un altro mondo. Quando cadde l’aereo avevo esattamente un anno. Ma la fortuna – si fa per dire – arrivò a dieci anni dalla strage, quanto meno dal punto di vista divulgativo. Nel 1991 esce il film “Muro di gomma” di Marco Risi, costruito attorno alla vicenda professionale di Andrea Purgatori, allora giornalista del Corriere della Sera che, per primo, a due giorni dalla strage, paventa la possibilità che l’aereo sia stato colpito e abbattuto da un missile. Questa storia, questa strage non ha nulla di musicale, è la negazione assoluta della musica, è intrisa di silenzi e quando i silenzi vengono rotti, spesso le cose dette, riferite e raccontate non sono quelle vere. Eppure c’è almeno una canzone, scritta nel 1992 da Francesco De Gregori (che curò, pur non apparendo nei titoli di coda del film “Muro di gomma”, la colonna sonora), “Sangue su Sangue”, che meglio di centinaia di ricostruzioni squarcia il velo su che cosa sia stata e su che cosa è – impossibile parlarne ancora e solo al passato – la strage di Ustica. 

“Che siamo chiusi in una scatola nera, stella, nessuno ci aprirà, Chiusi in una scatola nera, stella, nessuno ci libererà”.

Nel 1993 De Gregori è sul palco del teatro di Longiano, paese romagnolo, per “Teatri di verità”, un anno dopo l’uscita del disco “Canzoni d’amore”, in cui è contenuto “Sangue su sangue”. Attacca col pezzo e lo dedica alle vittime di Ustica, tra il pubblico c’è Daria Bonfietti, che è la presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, costituitasi da poco per scuotere l’immobilismo (tutti i resti del volo sono stati recuperati solo a 10 anni dalla strage) più o meno generale di fronte alla richiesta di verità. La scatola nera dell’aereo va aperta e decifrata. Solo qualche giorno fa l’ultimo passaggio di questa storia, di questa strage, di questo grande mistero d’Italia (e di Stato). Dalla conversazione interrotta e registrata sul nastro della scatola nera tra il pilota e il suo “secondo” che per molti anni era rimasta solo “Gua…”, grazie alle nuove tecnologie si sarebbe arrivati a un più completo “Guarda”. Che cosa doveva guardare sul monitor? E soprattutto, che cosa accadde quella notte nei cieli italiani?

Una manciata di mesi fa la proposta: provare a raccontare alle ultime due classi di Scientifico e Classico della mia città, Senigallia, che cosa è stato e cosa è (ancora) Ustica, in questo 2020 che è anche anniversario tondo della Strage. Da dove partire? Da Bologna, dall’aeroporto Marconi, da dove iniziò l’ultimo viaggio di 77 passeggeri e 4 membri dell’equipaggio. Ottantantuno vittime più una: Aldo Davanzali il presidente di Itavia, il principale vettore aereo privato allora in Italia, che ha visto fallire la sua compagnia, cui fu tolta la licenza di volo per una tesi di non verità, sconfessata dai fatti, ma fatta passare per verità. Il cedimento strutturale dell’aereo. Davanzali sostenne che il suo Dc9 era stato abbattuto. E’ morto senza giustizia e senza verità. Solo qualche settimana fa ai suoi eredi e ai suoi familiari è stato riconosciuto un risarcimento, perché ministeri di Difesa e Trasporti, quella notte, non garantirono la sicurezza nei cieli.

Ecco, comunque che cosa accadde da una manciata di minuti dopo le 20 di quel 27 giugno 1980 in poi. 

Un aereo della principale compagnia privata italiana, l’Itavia, con nella fusoliera la scritta I-Tigi, decollò dall’aeroporto di Bologna alle 20,08. L’aereo era diretto a Palermo. A bordo c’erano 77 passeggeri, tra cui 11 bambini e 2 neonati, e 4 membri dell’equipaggio. E’ il tempo che scandisce questa storia. Allora come ora. L’aereo decolla con due ore di ritardo. A seguire il viaggio del Dc-9, questo il modello dell’aereo dell’Itavia, è il radar di Ciampino: invia il segnale ogni sei secondi all’aereo e l’aereo fa altrettanto, per mappare il percorso.

Dopo 40 minuti di volo, sopra il lago di Bolsena, il pilota fa notare un’anomalia a Ciampino: ha trovato, fin lì, tutti i radiofari spenti. Cosa inusuale.

Dodici minuti dopo, alle 20,56, l’aereo è a 44 miglia a sud di Ponza, continua a viaggiare alla velocità di 800 chilometri orari, e può prepararsi alla manovra per atterrare all’aeroporto di Punta Raisi di Palermo, operazione stimata in una ventina di minuti.

Tre minuti dopo, alle 20,59, il volo è sparito. Viene dichiarato disperso un’ora più tardi.

E da lì comincia una storia di misteri, depistaggi, inchieste e processi (in sede penale e civile), lunga quarant’anni.

All’alba del 28 giugno, nei pressi di Ustica, un’isola siciliana, vengono notati in mare prima dei detriti, poi una chiazza oleosa e infine alcuni corpi dei passeggeri. Saranno solo 38 le salme interamente recuperate (43, se nel conto vengono inseriti anche i resti di alcuni passeggeri).

Ma perché il Dc-9 si è inabissato? Ci sono almeno due inchieste, a Palermo e a Roma, che provano a far luce. E poi ce ne saranno tante altre. Ma il giorno dopo il Corriere della Sera, il 29 giugno 1980, titola in prima pagina sull’ipotesi che sia stato un missile ad aver colpito e fatto precipitare l’aereo.

Il missile è una delle ipotesi, le altre due sono: un cedimento strutturale, ipotesi sostenuta con forza anche dai vertici dell’Aeronautica Militare, e una collisione con un altro aereo.

L’ipotesi del cedimento strutturale è smentita non solo dal fatto che l’aereo, pur essendo vecchio avesse passato tutte le revisioni, ma anche perché solitamente in caso di un cedimento strutturale, il pilota ha il tempo di dare l’allarme e avvisare. Cosa che non è successa, perché la fine del Dc-9 è stata immediata. Ma tra le tante storie nella Storia di Ustica c’è anche quella della famiglia Davanzali, proprietaria della compagnia Itavia, cui fu ritirata la licenza di volo, dando per buona l’ipotesi del cedimento strutturale. E la compagnia aerea, già con i conti in rosso, finì in amministrazione straordinaria. Si è vista riconoscere un risarcimento solo dopo quasi quarant’anni (è notizia di qualche settimana fa), perché ministeri di Difesa e Trasporti non furono in grado di garantire la sicurezza dei cieli quella notte.

C’è un’altra ipotesi che prende corpo, sostenuta in alcuni ambienti (anche politici), ma che, concretamente, mostra molti limiti: lo scoppio di una bomba nella toilette dell’aereo. Se davvero fosse scoppiata una bomba, fanno notare alcuni periti, non sarebbero mai stati ritrovati intatti lavandino e water del bagno, ciò che invece avvenne.

I resti dell’aereo, appunto. La verità, forse, sta a 3.700 metri sotto il livello del mare. Ma ci vogliono almeno sei anni prima che quei resti vengano recuperati e l’operazione di recupero del relitto si concluderà solo nel 1990, dieci anni dopo la strage. Con qualche sorpresa, come il ritrovamento di un serbatoio di un Caccia. Che cosa ci fa un serbatoio di un Caccia, insieme ai resti del Dc-9? Quella notte, nonostante i radiofari siano spenti, c’è un traffico aereo militare intenso nei cieli italiani e nella fattispecie sopra il Tirreno. Anche questo sarà accertato solo con molto ritardo. Anche quest’aspetto servirà a formulare ulteriori domande per provare a capire come è successo e perché è successo.

Così come il ritrovamento dei resti di un Mig libico, avvenuto ventuno giorni dopo la strage di Ustica, sulla Sila. Gli scenari che si delineano superano la cronaca, nera o giudiziaria che sia, per arrivare a toccare la geopolitica, fino a pensare che quella notte del 27 giugno 1980, sui cieli italiani ci sia stata una battaglia aerea: aerei militari italiani che si alzano in volo e forse francesi e americani. E poi c’è quel Mig libico che è vero che viene ritrovato ventuno giorni dopo la strage, ma il corpo del pilota, così come sottolineerà il sottosegretario alla presidenza del Consiglio di allora, Giuliano Amato, è in avanzato stato di decomposizione. E quindi, c’è qualcosa che non torna con la datazione del luglio 1980 per l’incidente del Mig, forse va anticipata.  La Libia sembra che avesse un lasciapassare nei cieli italiani, nonostante Gheddafi fosse all’epoca nemico giurato degli Stati Uniti (e di conseguenza anche di francesi, inglesi e dei paesi Nato), per andare in Jugoslavia per far revisionare i propri aerei.

Se fosse un libro, per dirla alla Carlo Lucarelli (di cui vale la pena vedere la puntata di “Blu notte-Misteri d’Italia” su Ustica), sarebbe un giallo di quelli avvincenti, pieno di intrighi internazionali. Che è poi quello che, trent’anni dopo la strage, dirà Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, a proposito di Ustica: “ci furono intrecci eversivi, intrighi internazionali e opacità di comportamento dei corpi dello Stato nell’accertamento della verità”. Ma non è un libro e nemmeno un film purtroppo. Ci sono 81 morti e ancora tante famiglie che continuano a soffrire perché non sanno come sono morti i loro cari e proseguono la ricerca della verità. Le ultime sentenze civili avvalorano l’ipotesi del missile che ha colpito e ha abbattuto il Dc-9. Ma se fosse così, da chi è partito quel missile? 

La battaglia dei parenti delle vittime, riunitisi in associazione nel 1988, non si è mai fermata. Continua, perché si può prescrivere tutto, ma non una strage. Dal 2006, a Bologna, i resti del Dc-9 (sono 2.500 frammenti) sono esposti nel Museo della Memoria delle vittime di Ustica. Più che un modo per ricordare, è un modo per non dimenticare mai che cosa accadde quella notte del 27 giugno 1980.

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Se avesse previsto tutto questo, l’avvelenata di Giovanni Falcone

La (nostra) perdita d’innocenza è lì, a cavallo di quei cinquantasette giorni. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992. Siamo diventati un po’ più grandi, e anche in fretta, quando abbiamo visto morire uno dietro l’altro due magistrati. L’Italia era già con le metastasi, ma nessuno di noi avrebbe mai pensato che si sarebbe arrivato a tanto: che lo Stato fosse ridotto alle corde, quasi agonizzante, dall’altro Stato che come un cancro si era giù diffuso velocemente in tutto l’organismo.  Ci siamo fatti gli anticorpi in quella primavera/estate lì. Abbiamo prima appeso lenzuola bianche alle finestre, poi siamo scesi in strada, poi ci siamo sporcati le mani nel senso più alto del termine, abbiamo scritto, parlato, urlato la nostra indignazione. Abbiamo cercato di canalizzarla. Non abbiamo mai smesso di ricordare ciò che è successo, in una rapida sequenza temporale, sull’autostrada, a Capaci, e poi in via D’Amelio. Abbiamo iconizzato Falcone e Borsellino, li abbiamo cantati (legittimamente) come eroi. E ventotto anni dopo la strage di Capaci, al netto della sua eccezionalità, ricordare quel 23 maggio 1992 è diventato un rito stanco, perfino troppo abusato in quelle parole che non riescono ad aprire un varco verso una Verità che ancora non abbiamo. Sappiamo tutto o quasi dell’esecuzione materiale della strage, non riusciamo ancora a spiegarci però come ciò sia stato possibile che accadesse, senza alzare nemmeno un muro, rendendo quella strage (e quella successiva) fin troppo facile. A Falcone e Borsellino sono dedicate scuole, piazze, vie. Sono eroi, proprio quello che non avrebbero voluto essere. Se Falcone avesse previsto tutto questo… Sì, se Falcone avesse previsto tutto questo, sarebbe forse quanto meno inorridito.  L’antimafia che diventa un’etichetta come qualsiasi altro marchio pubblicitario (altro che i professionisti dell’Antimafia) in un approccio laico e diventa perfino religione in un settarismo che non ammette voci dissidenti. E poi la retorica dell’antimafia che si allarga alla politica: non c’è nessuno, da destra a sinistra, che non si appunti la spilletta dell’antimafia e che non abbia, almeno a parole, elevato al rango di eroi Falcone e Borsellino. Poi però la realtà è completamente diversa e perciò disarmante. Non solo al Sud. La mafia non spara più. Ma silenziosamente continua a fare affari e continua a spostare voti.

E dal generale al particolare: la figura di Falcone (e anche quella di Borsellino) viene tirata ulteriormente per la giacchetta, strumentalizzata, per un dibattito a posteriori che si trasforma sempre in tifo da stadio. E allora c’è chi ricorda come Falcone, pur avendo (forse) simpatie di sinistra, sia stato sempre osteggiato dai comunisti fino a quando c’erano e poi dal Pds. Chi lo tira a sé per attaccare i magistrati e di conseguenza il Csm. Quel Csm che ha fatto tutto per ostacolarlo prima nella nomina a procuratore di Palermo poi nel disegno – che aveva in testa – della Superprocura. E come un disco rotto ripete la solfa della separazione delle carriere dei magistrati.  E chi invece, dall’altra parte, lo eleva a scudo, a simbolo di un’antimafia spesso solo militante, carica di slogan, vuota di significati, ma capace di trasformarsi in attività benemerita e talvolta anche redditizia rispetto all’associazionismo di base.

Sì, dopo ventotto anni, al di là dell’emozione, del groppo in gola di fronte alle immagini di quel 23 maggio 1992 che vengono fatte scorrere in loop, ci dimentichiamo, pur essendo convinti ognuno dalla propria parte di essere i testimoni del verbo di Falcone, che cosa penserebbe lui di ciò che siamo diventati. Pur partendo da quella scossa di quella primavera/estate di 28 anni fa. Da quella che Nino Caponnetto ipotizzò come una Nuova Resistenza. C’è stata una prima stagione ribelle, significativa, in cui abbiamo pensato (a torto, magari col senno di poi) che stavamo non solo tenendo il punto, ma anche (forse) vincendo. Ma ora, siamo proprio sicuri che quest’Italia sia migliore di quella da cui siamo partiti? E che la lezione di Falcone – se di lezione si può (ancora) parlare – ci sia servita?

Ma se Falcone avesse previsto tutto questo: dati causa e pretesto, forse, anzi sicuramente, avrebbe fatto tutto comunque lo stesso. Non gli interessava essere un eroe. Ma suo malgrado lo è diventato. E il ricordarlo, magari una volta all’anno il 23 maggio, ci permette di assolvere le nostre coscienze.

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Un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle

Che sia una maglietta madida di sudore o una camicia, maniche arrotolate, che prova a tenere a freno il calore che si allarga per tutto il corpo durante l’estate, poco importa. Storie diverse, forse (inconsciamente) parallele, quelle di Mirko Bertuccioli e Franco Lauro. Che convergono però, in un destino che s’incunea, in una giornata di primavera, come questa. Dove uscire non è possibile. Dove sognare, visti i tempi, forse ancora meno. E allora bastano due notizie luttuose, da archiviare come cronaca, per unire un filo che potrebbe non essere logico. Ma che un senso comunque ce l’ha. Soprattutto se la prospettiva dello sguardo è personale. Perfino (dannatamente) autoreferenziale. Detto che ci s’incrocia, ci si sfiora e si cammina, inconsapevolmente, per un tratto di strada con compagni estemporanei, spesso a reciproca insaputa; i ricordi che s’intrecciano quando ciò è avvenuto, prendono forma, odore e sostanza. Un’estate, più di dieci anni fa, la mia prima estate da giornalista assunto a tempo indeterminato. Un investimento sul futuro, capitale umano a rischio, di fronte a una stabilità che poggia su sgretolamenti repentini e quotidiani.  Lo sport come specifica. Giornalista sportivo, termine perfino riduttivo, ora che lo sport – già all’epoca però c’è chi lo intendeva così – è ben altro che numeri da appiccicare a moduli e tabellini e interviste piene zeppe di frasi di circostanza. La musica come profonda passione. Che non declina verso un archivio quantitativamente indefinito e feticcio di dischi e di biglietti di concerti visti. E il sudore come unità di misura non solo delle proprie emozioni, ma delle proprie convinzioni. E così Mirko, cantante dei Camillas, mi apparve con quella maglietta carica di sudore e di vita, su un palco sì estemporaneo, nel locale della mia amica, sul lato B, proprio come un disco o una musicassetta, del lungomare di Senigallia. E la domanda era (e lo sarebbe stata ancora per qualche anno), dopo il primo concerto: “Non quando suonano i Camillas, ma quando (ri)suonano i Camillas”. Le smorfie per cantare, tra una birra e un’altra, “non ti sopporto più… imprenditore” e inventarsi, sul canovaccio del testo, altre decine di assonanze. La felicità che tocca la spensieratezza e diventa tutt’uno. E qualche ora dopo, al risveglio, dallo schermo tv, vedere affacciarsi Franco Lauro. Maniche della camicia arrotolate, senza perdere un grammo (se solo fosse possibile utilizzarlo come metro di misura) dell’eleganza e del portamento di un giornalista Rai che va tutti i giorni in video, senza perdere (anche in questo caso) un grammo (sempre che sia ancora possibile utilizzarlo come metro di misura) dell’entusiasmo e della voglia di raccontare lo sport. Che sia un mondiale di calcio, una sfida infuocata di pallacanestro o il pastone del giorno, a chiusura del tg.

C’è un tempo bellissimo, come canta Ivano Fossati. Tutto sudato.  E c’è sempre una stagione ribelle. La pelle d’oca che si espande al solo ricordo. Non tanto per il  come eravamo – che sì, nei ricordi, ci rende sempre migliori  di ora- ma per come avremmo voluto essere. E non sempre siamo riusciti a esserlo. Ma il ricordo di quel tempo/stagione è più forte – una scossa dalla testa ai piedi e ritorno – di qualsiasi altro pensiero e finisce così col prenderne il sopravvento. Anche di fronte alla morte di chi in un eccesso di banalizzazione potremmo considerare in un arco che oscilla tra lo sconosciuto e il conoscente. Ma che in fondo, nel profondo, ci sembra invece di aver conosciuto così tanto bene e da sempre, da considerarlo un amico. Senza (magari) che lui lo sappia.

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