Ha vinto il rock, hanno vinto i Maneskin a Sanremo. E sono tutti felici. D’accordo che gli eroi sono sempre tutti giovani e belli. E loro giovani e belli lo sono. Ma eroi e perfino rivoluzionari, sembra un tantino eccessivo. Perché l’equazione Maneskin uguale rock stona assai. E permettetemi di avere, almeno stavolta, un po’ la puzza sotto il naso. Perfino il padre putativo dei ragazzi Manuel Agnelli – che giustamente hanno invitato a duettare con loro sul palco dell’Ariston – in una vecchia intervista, parlando di XFactor, il talent generatore di campioni sanremesi tanto quanto lo fu Amici nella decade precedente, diede un consiglio a loro, usciti freschi freschi dal talent: più ore in studio di registrazione a scrivere canzoni e meno a girare per sfilate. Che detto da Agnelli – che però di ore in studio di registrazione ne ha passate parecchie e per fortuna – sembra quasi una contraddizione. Insomma tra il rock e fare il verso al rock, con pose, look e riff di chitarre, ce ne corre. Ce ne corre come da Achille Lauro all’essere l’incarnazione del provocatore glam del Terzo Millennio. Non voglio passare per un reazionario: ma quello che Achille Lauro ha fatto sul palco – e poi si chiude la digressione – l’avevamo visto fare non solo fuori dall’Italia, ma anche a casa nostra almeno una quarantina di anni fa. Niente di nuovo, quindi sul palco di Sanremo. Non c’è da costernarsi, perché fedele al fatto che il festival sia il festival della tradizione, il precetto, anche quest’anno, è stato ampiamente rispettato. Non inganni la lista, non la Rappresentante, di chi è salito sul palco. Come da migliore tradizione Cencelli, la spartizione è stata rispettata: 1/3 alla scena rap, 1/3 alla variante trap, 1/3 alla cosiddetta scena indie, rischiando di scivolare nelle presentazioni sull’identità dei convenuti, 1/3 alle vecchie glorie, 1/3 abbondante ai fuoriusciti dai talent rappresentandoli tutti o quasi, 1/3 di varie eventuali, tra ritorni e affezionati del palco sanremese.
In tutto questo polpettone è mancata, almeno nei riconoscimenti significativi la melodia che poi, lo dico rischiando davvero di passare per un reazionario, rimane la cifra stilistica di Sanremo. Nonostante in vita mia abbia frequentato poco l’Ariston e molto di più i club sparsi per l’Italia. E per questo mi è parso doveroso l’omaggio che, anche i Maneskin oltre Gazzè, si sono sentiti in obbligo di fare al gruppo che più degli altri, tra Cccp e Csi, ha meglio rappresentato non solo la scena indipendente italiana, ma anche quel concetto di rock che non può essere ricondotto solo a uno stile, a un esercizio tecnico, ma è fatto invece di centinaia di concerti all’anno, col rischio di arrivare in ritardo sul palco, perché il pulmino si è rotto, perché hanno rubato l’amplificatore all’autogrill e ne va trovato uno al volo. Altrimenti come scrisse proprio Giovanni Lindo Ferretti nel bellissimo libretto di Linea Gotica a proposito del punk e di Malcom McLaren, l’alchimista della grande truffa del rock’n’roll (per sua stessa ammissione), presentando “Sogni e sintomi”: “Il resto è un mucchio di vestiti, brutti e scomodi”. Riservando poi, anche una magnifica chiosa: “Nella confusione tra sogni e sintomi, punk e moda, media e spazzatura, pogare e pagare”. E questo sia detto, non solo per inciso, vale sempre, comunque e dovunque anche per il rock. E dovrebbe valerlo anche sul prestigioso palco di Sanremo.
Tornando alla melodia e all’approccio rock, che non è solo un mucchio di accordi e vestiti, non stona invece che siano stati più convincenti i Coma_Cose e il duo Colapesce e Dimartino, che i talent non li hanno nemmeno sfiorati, ma che di strada e di viaggi notturni in furgoncino se ne sono fatti parecchi. Un bagaglio essenziale. Per tutto il resto ci sono i talent (appunto) e un Sanremo, con annesso televoto, che ne è la perfetta traduzione istituzionale. Così comunque conservatore, anche se hanno vinto i Maneskin.