Archivio mensile:marzo 2021

I Maneskin e il (non) trionfo del rock

Ha vinto il rock, hanno vinto i Maneskin a Sanremo. E sono tutti felici. D’accordo che gli eroi sono sempre tutti giovani e belli. E loro giovani e belli lo sono. Ma eroi e perfino rivoluzionari, sembra un tantino eccessivo. Perché l’equazione Maneskin uguale rock stona assai. E permettetemi di avere, almeno stavolta, un po’ la puzza sotto il naso. Perfino il padre putativo dei ragazzi Manuel Agnelli – che giustamente hanno invitato a duettare con loro sul palco dell’Ariston – in una vecchia intervista, parlando di XFactor, il talent generatore di campioni sanremesi tanto quanto lo fu Amici nella decade precedente, diede un consiglio a loro, usciti freschi freschi dal talent: più ore in studio di registrazione a scrivere canzoni e meno a girare per sfilate. Che detto da Agnelli – che però di ore in studio di registrazione ne ha passate parecchie e per fortuna – sembra quasi una contraddizione. Insomma tra il rock e fare il verso al rock, con pose, look e riff di chitarre, ce ne corre. Ce ne corre come da Achille Lauro all’essere l’incarnazione del provocatore glam del Terzo Millennio. Non voglio passare per un reazionario: ma quello che Achille Lauro ha fatto sul palco – e poi si chiude la digressione – l’avevamo visto fare non solo fuori dall’Italia, ma anche a casa nostra almeno una quarantina di anni fa. Niente di nuovo, quindi sul palco di Sanremo. Non c’è da costernarsi, perché fedele al fatto che il festival sia il festival della tradizione, il precetto, anche quest’anno, è stato ampiamente rispettato. Non inganni la lista, non la Rappresentante, di chi è salito sul palco. Come da migliore tradizione Cencelli, la spartizione è stata rispettata: 1/3 alla scena rap, 1/3 alla variante trap, 1/3 alla cosiddetta scena indie, rischiando di scivolare nelle presentazioni sull’identità dei convenuti, 1/3 alle vecchie glorie, 1/3 abbondante ai fuoriusciti dai talent rappresentandoli tutti o quasi, 1/3 di varie eventuali, tra ritorni e affezionati del palco sanremese.

In tutto questo polpettone è mancata, almeno nei riconoscimenti significativi la melodia che poi, lo dico rischiando davvero di passare per un reazionario, rimane la cifra stilistica di Sanremo. Nonostante in vita mia abbia frequentato poco l’Ariston e molto di più i club sparsi per l’Italia. E per questo mi è parso doveroso l’omaggio che, anche i Maneskin oltre Gazzè, si sono sentiti in obbligo di fare al gruppo che più degli altri, tra Cccp e Csi, ha meglio rappresentato non solo la scena indipendente italiana, ma anche quel concetto di rock che non può essere ricondotto solo a uno stile, a un esercizio tecnico, ma è fatto invece di centinaia di concerti all’anno, col rischio di arrivare in ritardo sul palco, perché il pulmino si è rotto, perché hanno rubato l’amplificatore all’autogrill e ne va trovato uno al volo. Altrimenti come scrisse proprio Giovanni Lindo Ferretti nel bellissimo libretto di Linea Gotica a proposito del punk e di Malcom McLaren, l’alchimista della grande truffa del rock’n’roll (per sua stessa ammissione), presentando “Sogni e sintomi”: “Il resto è un mucchio di vestiti, brutti e scomodi”. Riservando poi, anche una magnifica chiosa: “Nella confusione tra sogni e sintomi, punk e moda, media e spazzatura, pogare e pagare”. E questo sia detto, non solo per inciso, vale sempre, comunque e dovunque anche per il rock. E dovrebbe valerlo anche sul prestigioso palco di Sanremo.

Tornando alla melodia e all’approccio rock, che non è solo un mucchio di accordi e vestiti, non stona invece che siano stati più convincenti i Coma_Cose e il duo Colapesce e Dimartino, che i talent non li hanno nemmeno sfiorati, ma che di strada e di viaggi notturni in furgoncino se ne sono fatti parecchi. Un bagaglio essenziale. Per tutto il resto ci sono i talent (appunto) e un Sanremo, con annesso televoto, che ne è la perfetta traduzione istituzionale. Così comunque conservatore, anche se hanno vinto i Maneskin.

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Glorifichi la vita e gloria è

Devoto. Come è giusto che sia. Di fronte a una canzone che è in sé un’invocazione a un mondo – che all’epoca – non c’era già più. La più convincente interpretazione della serata delle cover, a Sanremo, è stata quella di Max Gazzè con la Magical Mistery Band (e Daniele Silvestri) di “Del mondo”. Del mondo è una delle pietre angolari di “Ko de mondo”, il primo disco del Consorzio Suonatori Indipendenti. Un disco che è un’istantanea su un mondo che è in evidente trasformazione. Talvolta anche in maniera sanguinosa. E’ la miglior appendice musicale per provare a raccontare l’ultracitato Secolo Breve, il Novecento che va in malora e che si sgretola, inevitabilmente, con le sue certezze. Con le sue fondamenta. E’ un inno alla vita, anche di fronte alla morte. Alla vita vera, fatta – come amava e ama tuttora ripetere Giovanni Lindo Ferretti – di carne, viscere, sangue e legamenti. E Del Mondo è un classico anche senza essere annoverato tra i classici delle canzoni italiane. Prima dell’altra sera a Sanremo, ci provò Robert Wyatt, non uno qualunque, a coverizzarla. La sua voce flebile che trasuda vita vissuta -costretto ad aggrapparsi a una sedia a rotelle per rivolgere lo sguardo all’orizzonte – e che declama i versi di Ferretti che glorificano la vita, come è giusto che sia. In un Occidente che ha perso la bussola, smarrito le sue certezze, costruite inevitabilmente in contrapposizione al suo alter ego: l’Est che è già deflagrato. E l’ormai Ex Jugoslavia ridotta a carneficina di chilometro in chilometro, di confine in confine, a ricordarlo. Anche in quello splendido pezzo – sempre tratto da Ko de Mondo – di “Memorie di una testa tagliata” che è l’altra pietra angolare del disco assieme a Occidente (appunto), a “Del Mondo” e “A tratti” che ci fa piombare in un eterno presente – per citare i vecchi Cccp – che non siamo mai riusciti a a capire fino in fondo. “Non fare di me un idolo o mi brucerò, se mi trasformi in megafono m’incepperò – canta Ferretti – cosa fare e non fare non lo so. Quando dove e perché riguarda solo me”.

Ecco perché di fronte a un pezzo simile ci vuole molta devozione, quella applicata da Gazzè e soci: non serve stravolgere, non serve esagerare con virtuosismi. Già il fatto che nella notte di Sanremo, si canti, come una preghiera (come giusto che sia) sul palco dell’Ariston, una canzone dei Csi, è il modo migliore per glorificare la vita. La vita (anche) di una scena musicale italiana – che si è diffusa trent’anni fa ormai – in cui il Consorzio Suonatori Indipendenti che si tramutò, dal punto di vista della produzione di altri artisti, in Consorzio Produttori Indipendenti, fu motore instancabile. E in questo stranissimo Sanremo è come se una serie di puntini che di partenza sembrano uno distante dall’altro, si uniscano. Lo Stato Sociale che rifà “Non è per sempre” che sul finale invita a salire sul palco quelli che lavorano nello spettacolo da un anno fermi al palo. E tra di loro ci sono anche chi ha tirato le fila di club che in quella fertilissima stagione permisero all’Italia di essere (perfino) modello e scuola per altri Paesi, in cui la musica non era considerata solo un passatempo. O ancora lo stesso Manuel Agnelli, l’unico (al di là del suo fortissimo ego) che in questi anni con tenacia ha provato a rivendicare ciò che di buono si fece in quell’epoca: dal punto di vista della produzione musicale, ma anche della formazione, della creazione di figure professionali e tecniche nel panorama italiano, che avevano poco o nulla da invidiare a ingegneri del suono (e non solo) oltre Manica e oltre Oceano. Così al di là dell’inevitabile effetto nostalgia per il tempo che fu, per un Consorzio Suonatori Indipendenti che mai si rimetterà insieme (come è giusto che sia), la devozione e la messa sul palco di questa canzone da parte di Gazzè, è il giusto tributo a qualcosa che difficilmente è riproponile ora. Difficilmente tornerà. Ma che ci ricorda come eravamo. E forse, anche, come avremmo potuto essere ancora. E rimane il miglior inno alla vita. O più elegantemente una preghiera laica. Da recitare.

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