Archivio mensile:aprile 2020

Un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle

Che sia una maglietta madida di sudore o una camicia, maniche arrotolate, che prova a tenere a freno il calore che si allarga per tutto il corpo durante l’estate, poco importa. Storie diverse, forse (inconsciamente) parallele, quelle di Mirko Bertuccioli e Franco Lauro. Che convergono però, in un destino che s’incunea, in una giornata di primavera, come questa. Dove uscire non è possibile. Dove sognare, visti i tempi, forse ancora meno. E allora bastano due notizie luttuose, da archiviare come cronaca, per unire un filo che potrebbe non essere logico. Ma che un senso comunque ce l’ha. Soprattutto se la prospettiva dello sguardo è personale. Perfino (dannatamente) autoreferenziale. Detto che ci s’incrocia, ci si sfiora e si cammina, inconsapevolmente, per un tratto di strada con compagni estemporanei, spesso a reciproca insaputa; i ricordi che s’intrecciano quando ciò è avvenuto, prendono forma, odore e sostanza. Un’estate, più di dieci anni fa, la mia prima estate da giornalista assunto a tempo indeterminato. Un investimento sul futuro, capitale umano a rischio, di fronte a una stabilità che poggia su sgretolamenti repentini e quotidiani.  Lo sport come specifica. Giornalista sportivo, termine perfino riduttivo, ora che lo sport – già all’epoca però c’è chi lo intendeva così – è ben altro che numeri da appiccicare a moduli e tabellini e interviste piene zeppe di frasi di circostanza. La musica come profonda passione. Che non declina verso un archivio quantitativamente indefinito e feticcio di dischi e di biglietti di concerti visti. E il sudore come unità di misura non solo delle proprie emozioni, ma delle proprie convinzioni. E così Mirko, cantante dei Camillas, mi apparve con quella maglietta carica di sudore e di vita, su un palco sì estemporaneo, nel locale della mia amica, sul lato B, proprio come un disco o una musicassetta, del lungomare di Senigallia. E la domanda era (e lo sarebbe stata ancora per qualche anno), dopo il primo concerto: “Non quando suonano i Camillas, ma quando (ri)suonano i Camillas”. Le smorfie per cantare, tra una birra e un’altra, “non ti sopporto più… imprenditore” e inventarsi, sul canovaccio del testo, altre decine di assonanze. La felicità che tocca la spensieratezza e diventa tutt’uno. E qualche ora dopo, al risveglio, dallo schermo tv, vedere affacciarsi Franco Lauro. Maniche della camicia arrotolate, senza perdere un grammo (se solo fosse possibile utilizzarlo come metro di misura) dell’eleganza e del portamento di un giornalista Rai che va tutti i giorni in video, senza perdere (anche in questo caso) un grammo (sempre che sia ancora possibile utilizzarlo come metro di misura) dell’entusiasmo e della voglia di raccontare lo sport. Che sia un mondiale di calcio, una sfida infuocata di pallacanestro o il pastone del giorno, a chiusura del tg.

C’è un tempo bellissimo, come canta Ivano Fossati. Tutto sudato.  E c’è sempre una stagione ribelle. La pelle d’oca che si espande al solo ricordo. Non tanto per il  come eravamo – che sì, nei ricordi, ci rende sempre migliori  di ora- ma per come avremmo voluto essere. E non sempre siamo riusciti a esserlo. Ma il ricordo di quel tempo/stagione è più forte – una scossa dalla testa ai piedi e ritorno – di qualsiasi altro pensiero e finisce così col prenderne il sopravvento. Anche di fronte alla morte di chi in un eccesso di banalizzazione potremmo considerare in un arco che oscilla tra lo sconosciuto e il conoscente. Ma che in fondo, nel profondo, ci sembra invece di aver conosciuto così tanto bene e da sempre, da considerarlo un amico. Senza (magari) che lui lo sappia.

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