Archivio mensile:gennaio 2020

Craxi, il film di Amelio e la solita Italia

La folla sceglie arbitrariamente un unico individuo ritenuto responsabile e lo annienta. La vittima finisce così per ricoprire due funzioni: da una parte viene riconosciuta come causa della violenza iniziale e dall’altra come potenza miracolosa che ha fatto cessare i conflitti, viene cioè sacralizzata. La vittima così diviene un dio. Se a scriverlo non fosse stato René Girard, a cosa pensereste, visto che ci siamo appena lasciati alle spalle l’ultimo anniversario per i vent’anni dalla morte di Bettino Craxi?

A Bettino Craxi, appunto. Sarà stato puro (e legittimo) marketing cinematografico ma l’uscita del film di Gianni Amelio, “Hammamet”, in concomitanza con il ventennale della morte dell’ex segretario del partito socialista, ha rinfocolato un dibattito che rischia di risultare (perfino) un po’ stantio: perché si muove sulle solite linee. O colpevole o innocente? O esilio o latitanza? E subito c’è chi si affretterà a dire che era colpevole (sentenze passate in giudicato, lo confermano, ma i dubbi per una condanna in contumacia valgono solo per alcuni e non per altri?) e che era un latitante pericoloso (anche se non si è spostato di un centimetro dalla villa di Hammamet e non ha organizzato o provato a organizzare chissà quali vendette). Così come che c’è chi sostiene che il film di Gianni Amelio sia un’apologia di Craxi, trasformato in santino.

Andiamo, con ordine. E partiamo dal film. Non è, almeno dal punto di vista artistico, eccezionale. Ma ha un pregio: rende l’idea di quanto un uomo di potere (che si chiami Craxi o in altra maniera poco importa, ma la storia dell’ex presidente del Consiglio è senz’altro paradigmatica in tal senso) rimanga così solo (che nemmeno un cane potrebbe ambire a destino peggiore), quando perde il potere. Amelio riesce a raccontare il privato che si trasforma in intimo, e bilancia il film sul rapporto con la figlia. E per la figlia il padre può essere stato anche presidente del consiglio, potentissimo politico, ma rimane sempre (e soprattutto) suo padre. Detta così, sembrerebbe un’analisi cinematografica fin troppo banale. Che non tiene conto della bravura di Pierfrancesco Favino nell’impersonificare Craxi, tanto da superare o mettere perfino in discussione il concetto di verosimiglianza con il protagonista reale. Il film, proprio per questo viaggio nell’abisso della solitudine di un ex uomo del potere, prende e colpisce. Certo, il valore aggiunto è che è ispirato (ispirato, meglio sottolinearlo) alla storia di Craxi. Perché poi in sala, è tutto un darsi di gomito tra gli spettatori (non tutti, a dir la verità), per provare a capire chi si cela dietro a un determinato personaggio del film. Così il politico che va trovare il Presidente in una delle ultime scene del film, è Cossiga o non è Cossiga? Ma il punto non è questo. Quello di Amelio non è un biopic (come si usa chiamarli ora certi film), e di conseguenza non parte certo col suo film la riabilitazione del personaggio politico, il più controverso (forse, senza tema di smentita) della storia repubblicana. Quindi, andate a vedere il film e non chiedetevi se il regista sta idolatrando Craxi, facendo passare un (sotto)messaggio del tipo: “si stava meglio quando si stava peggio”.

La coincidenza con l’anniversario della morte di Craxi ha riaperto il dibattito. E le discussioni. Craxi non era un santo, certo, e nemmeno (forse) un ladro. Ha delle evidenti responsabilità, se sei un capo, se sei il capo, non puoi non renderti conto di quello che sta succedendo sotto di te. Di quello che combinano – con un termine che rende molto l’idea – i tuoi sottopancia. Forse se ne era anche reso conto. Ma non ha fatto nulla per fermare l’accelerato declino del Partito Socialista. Detto questo, la biografia dell’uomo non è di quelle da coprire col pietoso velo. Come vorrebbero farci credere i colpevolisti in servizio permanente che provano a offuscare tutto quello che è possibile offuscare. Tale guerra tra bande, vent’anni dopo la morte di Craxi, dimostra quanto il personaggio (politico) fosse divisivo. Altrimenti non si spiegherebbero quei post, anche di commentatori più o meno titolati, che con l’ascia e con una manciata di fandonie, continuino a distruggere, anche post mortem, l’ex segretario del Partito Socialista. L’equazione massimalista Milano da bere uguale Craxi e di conseguenza merda, così come inchiesta Mani Pulite uguale Craxi e di conseguenza il principe dei ladri, è il peggior insulto alle intelligenze che si possa fare. Oggi come allora. Ma se allora, presi da un furore ideologico e dalla furia giustizialista non ci si accorse che si stava per buttare all’aria un sistema (certo) ma anche un primato della politica (che, ahinoi, ora rimpiangiamo e anche chi non lo fa ora, in qualche modo è come se  lo facesse di fronte allo scenario attuale) su tutto ciò che la politica dovrebbe governare (a iniziare dall’economia); vent’anni dopo forse un giudizio più sereno lo meriterebbe la storia di Craxi e la sua fine. Anche se non si è d’accordo nel definire Hammamet non come un esilio, ma come un latitanza.

Andando, anche in questo caso, con ordine. Il linguaggio di allora. Ascoltando una tribuna politica dei tempi o un comizio, c’era qualcosa da imparare. Quanto meno nell’eloquio. E non solo perché non volavano solo insulti. Dopodiché: chi è stato Craxi? Un capo politico che aveva una visione più ampia della sola Italia. Basti pensare ai rapporti con Arafat o alla delegazione che guidò in Cile subito dopo il colpo di Stato, con tanto di denuncia, perché i militari di Pinochet non permisero a lui e agli altri della delegazione di posare i fiori sulla tomba di Allende. Forse non basta questo per offuscare il finale di carriera anticipato, con l’inchiesta Mani Pulite e con le accuse (talune divenute condanne) sul suo ruolo di segretario del Partito Socialista. Ma forse invece basta, per capire che un politico, cui affidiamo le sorti di un Paese come il nostro, dovrebbe avere una visione che non si fermi ai confini terreni dello Stivale. Certo, nel mazzo va contato anche il rapporto con Siad Barre in Somalia: le armi, i misteri. Ma difficile non considerare, per quanto possa sembrare un azzardo ora, terzomondista la politica di Craxi. Era uomo di Sinistra? Sicuramente lo è stato, anche se fortemente anticomunista. Non si comportò bene con Berlinguer al congresso di Verona (“non mi unisco ai fischi solo perché non so fischiare”), ma non lo dileggiò mai, come vorrebbe far credere un post che sta facendo il giro sul web. Era antifascista, anche se Forattini amava raffigurarlo come il nuovo Benito (il nome, diciamo, non l’agevolava). Si scoprì presidenzialista. Ma alla fine dei conti, per quanto la parola possa suscitare ancora l’orticaria in una certe parte della Sinistra, era un riformista. In senso pieno. E’ vero che col suo governo, il più lungo della storia della Prima Repubblica, furono poste le basi di un debito pubblico strong, di cui ancora paghiamo le conseguenze. E’ altrettanto vero, però, che non c’è solo la sua firma, ma anche tutto l’impegno che la precede, nella stipula dei Patti Lateranensi (1984), che regolano i rapporti tra Santa Sede e Italia. Quella firma tolse “l’insegnamento della dottrina cristiana come coronamento dell’istruzione elementare”. Tradotto: libertà di culto.  Infine, la cultura. Si è detto che gli anni ’80, col Craxismo, hanno portato a una degenerazione, spesso identificata con la Milano da bere. Che si alimentava nel dire che  i socialisti e i craxiani fossero poco interessati alla cultura. Senza tema di smentita in quegli anni lì molti dirigenti culturali erano invece di estrazione socialista. E sono stati degli ottimi dirigenti, ponendo le basi alla nascita di enti e rafforzandoli nelle loro proposte culturali. Molti di questi hanno lasciato delle impronte, anche tangibili, che fossero festival teatrali, eventi lirici, rassegne musicali. Perfino, la corte di Craxi allora, da Caterina Caselli a Ornella Vanoni, era tutto fuorché un concentrato di “viveur” dediti solo allo spasso, senza fondamenti culturali. Non fu così.

Infine, quel 30 aprile 1993. Avevo quattordici anni, ero entusiasta (come molti allora) che i partiti, i loro capi, i loro capetti, maneggioni e arraffoni, fossero “cancellati” come politici dalle inchieste di Di Pietro e company. Sognavamo la salvezza per mano della magistratura e che un sistema politico che credevamo pieno di metastasi corruttive, fosse ribaltato dai giudici. Perché pensavamo che, a quel punto, fossero gli unici che potevano farlo. Non ci accorgevamo che, in condizioni normali e in una democrazia, questo si chiama golpe: abbattere con le inchieste la vecchia classe dirigente per sostituirla con una nuova. Che non è stata migliore di quella che l’ha preceduta e quella successiva, addirittura, è ancora peggio delle altre due. Sì, rischiamo – come racconta Girard nella teoria del capro espiatorio –  una volta che il capro espiatorio non c’è più, di santificarlo. E in Italia, talvolta anche senza un minimo di senso storico, ci si affretta spesso a dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Anche di fronte all’orrore del fascismo, c’è chi continua a sostenerlo. Figuriamoci di fronte alla Prima Repubblica che, con i suoi protagonisti discutibili fino a quanto vogliamo, ci ha riportato alla libertà. Però, anche numeri alla mano (il saldo tra indagati e condannati), qualche domanda in più sicuramente dobbiamo farcela su che cosa è stata Mani Pulite. In altre situazioni con confessioni o peggio ancora nomi “estorti” con la minaccia del carcere, o facendo leva sulla custodia cautelare, avremmo gridato allo scandalo. Quella che sembrava a molti una nuova resistenza contro chi rappresentava il potere allora, si è trasformata talvolta (non sempre) in accanimento giudiziario che ha portato a poco o addirittura a nulla. Tutto questo, non significa riabilitare Craxi. Ma quanto meno evitare che in questo Paese si ingaggi il solito duello tra bande contrapposte, che sa molto di inutile caciara, perdendo invece di vista la realtà. Forse, alla fine, più che sprecare energie nel dire se Craxi sia colpevole o innocente, queste ricorrenze e le testimonianze che ne sono seguite (tra libri, interviste, film), ci serviranno per riflettere su ciò che è stato. Ma con un giudizio più rotondo, completo. E meno da ultrà.

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