Archivio mensile:luglio 2021

Perché sono state (davvero) Notti Magiche

Faceva un certo effetto, ieri notte, sentire i calciatori della nostra Nazionale cantare “Un’estate italiana”. Che poi tutti conoscono per quel ritornello che si stampa nel cervello e non ti lascia più: notti magiche. Un certo effetto perché molti di loro (la maggior parte) – come ha ricordato Niccolò Barella alla giornalista – nel 1990 non erano nemmeno nati.

Roberto Mancini sì, perché di quella Nazionale “plasmata” da Azeglio Vicini faceva parte. Anche se non scese mai in campo. Sono dettagli fondamentali questi per raccontare il Mancini commissario tecnico, le notti magiche appena vissute e quel debito col passato che è stato finalmente chiuso. In queste settimane i paragoni tra Mancini e gli altri commissari tecnici, anche quelli del Pantheon (da Pozzo a Bearzot), si sono sprecati. Ma c’è un commissario tecnico di cui ci siamo dimenticati, forse fin troppo in fretta. Che trattò Mancini (e i suoi compagni di quella stagione magnifica ma poco fortunata) come figli: Azeglio Vicini, appunto. Vicini prese la nazionale maggiore dopo la cocente delusione dell’Italia di Bearzot che aveva finito (malamente) il suo ciclo ai mondiali di Messico del 1986. Non era facile ricostruire, si affidò al suo gruppo quello che aveva cresciuto nelle nazionali giovanili, prendendosi anche dei rischi. E portò nel giro di due anni l’Italia due volte in semifinale: agli Europei del 1988 e ai mondiali italiani nel 1990. Nel frattempo quei calciatori erano cresciuti, compattandosi in un gruppo, dove c’erano talenti, ma dove anche il commissario tecnico sapeva tenere a bada le esuberanze (all’epoca dello stesso Mancini calciatore). Ecco, uno dei riferimenti cultural-calcistici del Mancini commissario tecnico è sicuramente Vicini. Lui, anni dopo, trovò le macerie, più o meno come quelle del 1986 (forse una situazione ancora peggiore perché non avevamo centrato nemmeno la qualificazione ai mondiali). Mancini ha costruito, tassello dopo tassello, la sua e la nostra Nazionale, prendendosi dei rischi, puntando su parecchi debuttanti (o quasi), scommettendoci sopra e dando a loro un’ampia fiducia. E così si è preso anche delle rivincite, da allenatore, rispetto a quello gli era successo da calciatore. Soprattutto in nazionale.

Cosa c’entra, al di là dell’aspetto tecnico, tutto questo con le Notti Magiche finite poi male nel 1990? Che all’inizio di quel decennio che sarebbe poi stato un decennio di trasformazione inimmaginabile allora, con un cambio di passo significativo per la storia (la caduta del Muro e del blocco dell’Est, la dissoluzione della Jugoslavia), per la società (dall’era analogica a quella digitale), avevamo il coraggio di sognare. Di sognare dappertutto. Non solo nel calcio. E così si torna a Mancini. Quando nell’estate del 1990, con il gemello del gol Gianluca Vialli, sono in vacanza a smaltire la delusione di quel mondiale (Mancini da spettatore, Vialli da protagonista in formato Godot, sempre atteso ma mai arrivato), pianificano quella che resta, trent’anni dopo, la più grande impresa calcistica in serie A. Lo scudetto della Sampdoria. Sembrava impossibile e invece la Sampdoria riuscì a mettersi dietro le grandi, tirando fuori le stesse caratteristiche che abbiamo visto in questa Nazionale di Mancini: un’unità di gruppo granitica, una certezza nel sogno, anche impossibile, difficile da scalfire di fronte a ostacoli e avversità . Basta? Basta probabilmente e quest’Europeo l’ha dimostrato. Mai smettere di sognare se si ha piena consapevolezza dei propri mezzi e di quale sia la propria forza. E per quanto Mancini sembri devoto alla concretezza, almeno nelle interviste, è un sognatore. Sognatore, con i piedi ben piantati a terra. Gli basta alzare un tacco, come faceva da calciatore, per realizzare sogni e capolavori. E infine, per quanto sembri azzardato, dopo un percorso di crescita a dir poco sorprendente (dalle intemperanze da calciatore alla calma rassicurante e potente da allenatore), Mancini vive (ora e finalmente) della stessa fama di Clint Eastwood nel cinema. Roberto ormai più bravo (e vincente) da allenatore che da calciatore, nonostante sia stato comunque un campione. Così come Clint: grande attore, ma ancor di più magnifico regista. E per costruire delle storie vere, che sembrano anche dei magnifici film, proprio come quello che abbiamo appena visto e vissuto, serve sempre un grande regista.

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Raffaella e i (nostri) sabato qualunque

Erano dei sabato qualunque. Ma ci sembravano bellissimi. La libertà, allora, era spingersi a restare svegli davanti al televisore fino alle 22,30. Poi si filava a nanna. In questi sabato qualunque Raffaella Carrà era la nostra guida. E non sapevamo nemmeno che cosa c’eravamo persi prima. Perché la nostra generazione è sospesa tra i due secoli: quello (seppur) breve, da romanzo, il Novecento e quello immediato, in cui siamo appena entrati e facciamo ancora fatica a decifrare. L’esatto confine tra l’analogico e il digitale. Bravi a smanettare ora con gli smartphone, quanto insidiati dall’invadente televisione allora. Siamo nati col televisore in casa. Mentre si affrancavano le tv private, quella di Stato dettava ancora l’agenda del sabato sera. Con il varietà: forma d’intrattenimento assai irriproducibile ora, ove tutto è diventato così liquido e sgusciante, da non riuscire a prendere una forma. Allora il varietà lo incarnava Raffaella. E Fantastico era l’appuntamento fisso del sabato. La famiglia si piazzava davanti al televisore che era diventato a colori e che poteva essere manovrato a distanza, col telecomando, proprio perché l’offerta stava crescendo. E non si limitava solo ai primi tre canali ormai. Raffaella, bionda, simpatica, una di casa. Una che vedevi, anche a casa del nonno, ma sulla copertina di Tv sorrisi e canzoni, che stava per rinnovare il contratto con la Rai. Ma non l’aveva ancora fatto. Perché lusingata altrove, tanto (quasi) da scatenare una crisi politica sul fatto se fosse giusto pagare con una vagonata di soldi pubblici una conduttrice/ballerina/cantante o forse showgirl. Sei miliardi di lire in tre anni: due miliardi all’anno. Era il 1984: Ettore Bernabei, l’uomo di quella Rai, quasi non riusciva a dormirci di notte, al pensiero di quel contratto. Che poi fece firmare alla Carrà. E così Fantastico poteva continuare, l’assalto di Berlusconi era solo rimandato. Rimandato, appunto, perché quando la Carrà passa alle reti Fininvest nel 1987, ci sembra un tradimento. Doppio, perché con lei se ne va anche Pippo Baudo. Crollano le nostre prime certezze. Di sicuro, fino ad allora, c’erano Fantastico con Baudo o con la Carrà, la cotoletta impanata del sabato sera, con le patatine fritte (fatte a mano quando andava bene, surgelate quando le offerte dei supermercati avevano già invaso le nostre case e il televisore) e la messa della domenica (meglio alle 11, per dormire almeno fino alle 9).

Siamo cresciuti, con Raffaella. Ci sembrava l’innocente evasione del sabato rispetto alla vita da bambini. Col tempo ci saremmo accorti che quei sabato qualunque non sarebbero tornati. Che l’effetto nostalgia avrebbe travolto il disincanto di fronte a una televisione che non univa più. Perché, nel frattempo, i televisori in casa raddoppiavano. Non solo l’esemplare nel tinello, ma un altro in camera, un altro in sala. E mentre l’offerta televisiva aumentava, la scelta del programma da vedere non era più unitaria, non era più familiare, era sempre più parcellizzata. Abbiamo scoperto però, col tempo, anche un’altra Raffaella. Quella che, per la nostra (tenera) età allora, c’era sfuggita. Non la più amata dagli italiani solo perché lei stessa lo recitava nella pubblicità di un’azienda di cucine. Ma amata (e invidiata), ripensando all’ombelico scoperto di qualche anno prima, non tanto (e solo) per il suo lato erotico, ma per la portata del gesto in sé. Di quel ballo, “Tuca Tuca”, il cui ritornello era entrato nelle nostre teste e che aveva sfidato la censura in un’Italia ancora troppo perbenista e ancorata a un mondo che era già trapassato. O ancora, c’eravamo persi, la Raffaella che, prima di essere immortalata (sfruttando il furbo remix di Bob Sinclair) da Sorrentino ne “La grande bellezza”, cantava che nei nostri letti (e non solo lì) avremmo potuto fare all’amore come ci pareva. E perfino nell’ultimo decennio del secolo breve, tra una canzone dei Nirvana e dei Red Hot Chili Peppers, s’infilava ancora lei, con i suoi tormentoni. Con i suoi pezzi facili, ma altro che trash. Altro che vergogna nel canticchiare le sue canzoni che in Spagna, in nome di una liberazione pressoché definitiva quanto meno dal franchismo e dagli ultimi suoi residui, avevano già sdoganato. La Carrà è parte integrante del nostro romanzo di formazione. E anche quando tornò, quasi all’alba del secolo nuovo, con quella trasmissione, “Carramba”, troppo ammiccante con i generi varati da quelle che, un tempo, si definivano tv private; ci fermammo a guardarla. Anche solo per vederla, con Elio e le Storie Tese, cantare la “Presidance”. Senza perdere un grammo di ironia. di forza, di sicurezza. Ancora di sabato. Ancora dei sabato qualunque. Perché il peggio sembra(va) essere passato. Almeno per un’altra settimana.

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