Faceva un certo effetto, ieri notte, sentire i calciatori della nostra Nazionale cantare “Un’estate italiana”. Che poi tutti conoscono per quel ritornello che si stampa nel cervello e non ti lascia più: notti magiche. Un certo effetto perché molti di loro (la maggior parte) – come ha ricordato Niccolò Barella alla giornalista – nel 1990 non erano nemmeno nati.
Roberto Mancini sì, perché di quella Nazionale “plasmata” da Azeglio Vicini faceva parte. Anche se non scese mai in campo. Sono dettagli fondamentali questi per raccontare il Mancini commissario tecnico, le notti magiche appena vissute e quel debito col passato che è stato finalmente chiuso. In queste settimane i paragoni tra Mancini e gli altri commissari tecnici, anche quelli del Pantheon (da Pozzo a Bearzot), si sono sprecati. Ma c’è un commissario tecnico di cui ci siamo dimenticati, forse fin troppo in fretta. Che trattò Mancini (e i suoi compagni di quella stagione magnifica ma poco fortunata) come figli: Azeglio Vicini, appunto. Vicini prese la nazionale maggiore dopo la cocente delusione dell’Italia di Bearzot che aveva finito (malamente) il suo ciclo ai mondiali di Messico del 1986. Non era facile ricostruire, si affidò al suo gruppo quello che aveva cresciuto nelle nazionali giovanili, prendendosi anche dei rischi. E portò nel giro di due anni l’Italia due volte in semifinale: agli Europei del 1988 e ai mondiali italiani nel 1990. Nel frattempo quei calciatori erano cresciuti, compattandosi in un gruppo, dove c’erano talenti, ma dove anche il commissario tecnico sapeva tenere a bada le esuberanze (all’epoca dello stesso Mancini calciatore). Ecco, uno dei riferimenti cultural-calcistici del Mancini commissario tecnico è sicuramente Vicini. Lui, anni dopo, trovò le macerie, più o meno come quelle del 1986 (forse una situazione ancora peggiore perché non avevamo centrato nemmeno la qualificazione ai mondiali). Mancini ha costruito, tassello dopo tassello, la sua e la nostra Nazionale, prendendosi dei rischi, puntando su parecchi debuttanti (o quasi), scommettendoci sopra e dando a loro un’ampia fiducia. E così si è preso anche delle rivincite, da allenatore, rispetto a quello gli era successo da calciatore. Soprattutto in nazionale.
Cosa c’entra, al di là dell’aspetto tecnico, tutto questo con le Notti Magiche finite poi male nel 1990? Che all’inizio di quel decennio che sarebbe poi stato un decennio di trasformazione inimmaginabile allora, con un cambio di passo significativo per la storia (la caduta del Muro e del blocco dell’Est, la dissoluzione della Jugoslavia), per la società (dall’era analogica a quella digitale), avevamo il coraggio di sognare. Di sognare dappertutto. Non solo nel calcio. E così si torna a Mancini. Quando nell’estate del 1990, con il gemello del gol Gianluca Vialli, sono in vacanza a smaltire la delusione di quel mondiale (Mancini da spettatore, Vialli da protagonista in formato Godot, sempre atteso ma mai arrivato), pianificano quella che resta, trent’anni dopo, la più grande impresa calcistica in serie A. Lo scudetto della Sampdoria. Sembrava impossibile e invece la Sampdoria riuscì a mettersi dietro le grandi, tirando fuori le stesse caratteristiche che abbiamo visto in questa Nazionale di Mancini: un’unità di gruppo granitica, una certezza nel sogno, anche impossibile, difficile da scalfire di fronte a ostacoli e avversità . Basta? Basta probabilmente e quest’Europeo l’ha dimostrato. Mai smettere di sognare se si ha piena consapevolezza dei propri mezzi e di quale sia la propria forza. E per quanto Mancini sembri devoto alla concretezza, almeno nelle interviste, è un sognatore. Sognatore, con i piedi ben piantati a terra. Gli basta alzare un tacco, come faceva da calciatore, per realizzare sogni e capolavori. E infine, per quanto sembri azzardato, dopo un percorso di crescita a dir poco sorprendente (dalle intemperanze da calciatore alla calma rassicurante e potente da allenatore), Mancini vive (ora e finalmente) della stessa fama di Clint Eastwood nel cinema. Roberto ormai più bravo (e vincente) da allenatore che da calciatore, nonostante sia stato comunque un campione. Così come Clint: grande attore, ma ancor di più magnifico regista. E per costruire delle storie vere, che sembrano anche dei magnifici film, proprio come quello che abbiamo appena visto e vissuto, serve sempre un grande regista.