Archivio mensile:marzo 2020

L’importanza di chiamarsi Josip

Josip è un nome impegnativo. Soprattutto se sei nato in quella che ancora si chiamava Jugoslavia, prima che si sfaldasse definitivamente. Alla fine del gennaio 1988 Josip Ilicic nasce a Prijedor, che è Bosnia-Erzegovina, ma è ancora (per poco) Jugoslavia, appunto. Nel giro di due anni viene giù tutto. Nel modo peggiore. Con una guerra in cui, a distanza di quasi trent’anni, si fa ancora fatica a distinguere di chi furono le responsabilità iniziali.  E difficilmente lo farà la Storia. Ma si ricordano, seppure talvolta in maniera  sommaria,  le vittime (tantissime) e i carnefici (ancora troppo pochi per la lunga scia di violenze e brutture che si lasciarono dietro di loro). Josip è un profugo, col passaporto croato, che ha perso suo padre e si rifugia in Slovenia, dove la guerra è solo un’eco. Potente e sorda, ma è un’eco distante qualche centinaio di chilometri. A chi gli chiede dove ha imparato a giocare a calcio, lui evoca un muro. “Era la mia barriera”. Una barriera che riusciva a superare col pallone. Che è un po’ l’unità di misura, perfino un po’ irriguardosa visto il tema, che è sempre servita per raccontare il principio delle guerre balcaniche. Quando Josip è un adolescente – e il suo più famoso omonimo (Tito, anche lui croato-sloveno) è solo un ricordo sbiadito ma rimpianto e utile a coniare il neologismo Jugonostalgia – la guerra, anzi le guerre che hanno insanguinato i Balcani, sono finite. Lui si sente uno sloveno, a tutti gli effetti. Anche se l’intesa col ct della nazionale, Srecko Katanec, non è delle migliori. Gli danno dell’incostante, anche lo stesso Katanec inizialmente. Come se avesse preso un po’ di quell’indolenza serbo-montenegrina, che ha fatto di Dragan Stojkovic e Dejan Savicevic delle vere e proprie icone.

Ma in questa notte che se ne è appena andata, magica e vuota allo stesso tempo (per le tribune deserte e certi spettacoli si apprezzano solo dal vivo), fuori dal “Mestalla” di Valencia, quelle critiche sembrano ormai essersi perse nel tempo. Ilicic ha appena fatto quattro gol in una partita di Champions League, impresa riuscita prima solo a Marco Van Basten, con il Milan contro il Goteborg a inizi anni novanta e nel decennio successivo a Simone Inzaghi con la Lazio contro il Marsiglia. Ma la sua è proprio tutta un’altra storia: ha appena trascinato l’Atalanta ai quarti di finale di Champions. Roba da non credere. E dell’indolenza del giovane Ilicic nessuno parla più. Anche perché, per sua stessa ammissione, senza che mostri la carta d’identità a conferma: “Più invecchio e più miglioro”. Di anni ora ne ha 32 anni. E se si dovesse dare ragione a Sergio Tavcar, storico telecronista di TeleCapodistria, e ci sono tutte le ragioni per farlo, Ilicic, in un impeto di Jugonostalgia, racchiude la “genialità croata” e lo “sgobbismo sloveno”. Elementi, come dice lo stesso Tavcar, che, uniti alla postura dispersiva e farfallona dei serbi, rendono una squadra invincibile. Proprio come doveva essere quella Jugoslavia che uscì (sfortunatamente) a Firenze, dopo i calci di rigore, contro l’Argentina ai mondiali del 1990. Due di quei tre elementi li ha Ilicic che, oltre a inventarsi gol straordinari, da bravo sloveno, proprio come l’ex nemico (ritornato poi amico) Katanec, sa stare al suo posto. Dice Gasperini, il suo allenatore, che è l’unico che sorride, anche quando va in panchina. E se parte dalla panchina poi, è in grado di ribaltare le partite. Al Mestalla non c’è stato bisogno di aspettare tanto. L’Atalanta e lui volevano scrivere subito la loro pagina di Storia. E ce l’hanno fatta.

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