Questo sentimento popolare

Ricordo la radio, appoggiata sopra una credenza. E quella canzone passata con insistenza – era il 1985 – dall’emittente locale. Cantava perfino mia madre. Che era immersa in ben altri pensieri in quell’anno del Signore così funesto, almeno dal punto di vista lavorativo, per i miei. La voce di Battiato e poi quella di Alice s’insinuavano, tracciando un orizzonte mai preso in considerazione allora. La voglia di viaggiare a un’altra velocità. Quell’Italia lì sembrava lanciata verso chissà dove. A una folle velocità, noncurante del rischio di andare a schiantarsi. Cosa che, puntualmente poi, sarebbe avvenuta. E Battiato, con Alice, cantava di villaggi di frontiere, del guardare i treni nelle strade deserte di Tozeur. Così, quasi inconsapevolmente, Franco Battiato entrò nella mia vita. E già allora, sei anni, cantavo “e per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità”. Non era il classico ritornello da canzonetta. Ma una volta entrato nella testa, non ti usciva più. E soprattutto provocava, anzi provoca ancora, quel brivido lungo la schiena che è una botta di vita. Trentasei anni dopo, poco fa, nel giorno in cui Franco Battiato è morto ho provato ancora la stessa identica sensazione. Il brivido, il benessere, la necessità di cantare a squarciagola, di urlare quello che un ritornello classico proprio non lo è. Ma non per questa ragione meramente stilistica non ti si ficca in testa e non ti lascia più. Sì, in una speciale classifica delle canzoni di Battiato, la canzone “I treni di Tozeur” rimane saldamente in testa. Anni dopo, una manciata, un lustro forse, dopo quell’ascolto insistente e obbligato dalla radio, c’inciampai in una delle più belle scene de “La messa è finita” di Nanni Moretti. Stessa identica sensazione. Ancora. La voglia (o forse necessità col tempo) di vivere a un’altra velocità. Che poi in quelle associazioni d’idee che solo la visione mistica e compulsiva di film riescono a creare, fu un attimo passare da “I treni di Tozeur” a “Scalo di Grado”.

Allora, noncurante della scena cult del film “Bianca” il barattolo extra large di Nutella, rimasi folgorato da quell’attacco: “Ho fatto scalo a Grado, la domenica di Pasquaaa”. Moretti era sulla spiaggia, intorno solo coppie avvinghiate, sopra i teli da mare. E quella canzone che, come accade per “I treni di Tozeur”, entrava forte, decisa nella mente. “Ci si illumina d’immenso, mostrando un poco la lingua”. Altro brivido, prima dell’acuto, cantato senza ritegno: “al prete che dà all’Ostia. Ci si sente come in Paradiso, cantando dei salmi un poco stonati”. E anche lì, in quella canzone, che l’unico ritornello può considerarsi il liturgico “Agnus dei qui tollis peccata (mundi miserere)”, quell’incenso e quell’immenso che quasi si toccano, a qualche strofa di distanza, alzare il tono nel momento esatto in cui si canta “mostrare un po’ la lingua”. Piacere puro, niente di blasfemo, solo a pensarlo. E canticchiarlo sì, come fosse un ritornello. Anche quello. Che non ti va più via dalla stanza. Mi è capitato di passare a Grado, niente che evocasse quella canzone. Né la Laguna, né il mare. Né lo scalo che in parte fu quello che feci anch’io, materialmente, al ritorno da Pordenone, invece di puntare verso giù, puntai verso Grado. Verso il mare. Però, anche dopo anni, non riesco a togliermi dalla testa le parole di quella canzone. In cui mi rifugio. A cui mi attacco.

E poi c’è un terzo approdo. Un altro inciampo della vita. Un inciampo di quelli belli, come nei due casi precedenti. La notte di Ferragosto, ventenne, e una cassetta (allora esistevano ancora e facevano il loro (s)porco lavoro) che gira nell’autoradio. Il nuovo secolo era iniziato da poco. I Notwist per tirare tardi. Orsi elettrici come quella musica tedesca (Electric bear) per prendersi le ultime ore della notte. Finché la cassetta fa il suo corso e arriva alla fine. Smanettando in quest’auto, non la mia, di seconda o terza mano (vintage diremmo ora), ecco “L’era del cinghiale bianco” (che all’epoca, sia detto per inciso, veniva considerato l’album-manifesto di Battiato da destra). Lo schiudersi dell’alba con “Stranizza d’amuri”. Il siciliano “E quannu t’ancontru ‘nda strata. Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori. Ccu tuttu ca fora si mori. Na mori stranizza d’amuri. L’amuri”. La scossa, non solo fisica qui, ma anche a parole, nel testo. E il benessere ancora. Un ritornello che ritornello non è. Che non ti esce più dalla testa. L’urlo liberatorio: “L’amuri”. Cantato in maniera sguaiata, forse stonata, ma vera e il sole che sorge. Alla fine, come sempre. Una canzone che resta attaccata. Che introduce la primavera, che esalta il maggio e che, stanotte nonostante tutto, nonostante la morte di chi l’ha scritta, non depone le sue armi alla tristezza.

Ecco perché Franco Battiato quel “sentimento popolare” l’ha incarnato.

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