Pierpaolo Mittica, quel lungo viaggio tra le ceneri: “Vi mostro gli ultimi del mondo”

 

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Ecco la mia recensione, con intervista, sulla mostra fotografica di Pierpaolo Mittica a Pordenone, uscita oggi su Qn-Quotidiano Nazionale (il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno)

 

C’è una macchina per scrivere (col carrello distrutto). E attorno solo macerie e brandelli di muro. Sarajevo, anno del Signore 1997, il viaggio di Pierpaolo Mittica inizia da lì. «Ashes». Si intitola così, all’inglese, con la traduzione italiana immediatamente a fianco «ceneri», la mostra di Mittica. Centocinquanta foto — non poche — nella galleria Harry Bertoia di Pordenone (la mostra resterà aperta fino all’11 gennaio) per una retrospettiva che racconta in maniera esauriente il lavoro di Mittica da fotoreporter: dai Balcani all’India, pre Brics, quella del lavoro minorile, non sullo sfondo, ma davanti agli occhi. Come quegli occhi arrossati che ti si piantano davanti e non ti lasciano più, quelli del minatore di zolfo acceccato dai gas tossici nell’inferno del vulcano Jen, in Indonesia: ogni giorno chilometri per caricare quintali di materiale sulle spalle e tornare poi alla base a orari improbabili. Disumani. La mostra in questione è un viaggio che scava in profondità e racconta come si stia polverizzando il mondo che abbiamo conosciuto o che presumiamo ancora di conoscere. È un viaggio senza soluzione di continuità dalla Bosnia al Giappone, c’è anche Fukushima, passando per Chernobyl.
Prima tappa Sarajevo, Bosnia. La città, suo malgrado, simbolo di quella guerra in cui non possono esserci buoni e cattivi per l’inaudita violenza messa in campo.
«Ho deciso di andare lì per provare a capire le motivazioni di come un uomo potesse decidere di annientare un suo simile e la terra in cui aveva sempre vissuto. Volevo cercare di vedere come vivevano i sopravvissuti a quella guerra. Ho provato a raccontare questo con la mia macchina fotografica».
Ci sono i luoghi ma anche le facce.
«Sì, perché non volevo ridurre il mio lavoro solo al contesto, ma anche a chi era protagonista, almeno per me e per le mie foto, di quello che aveva visto accadere sulla propria pelle e sui propri affetti. Ho deciso di chiudere questo viaggio nei Balcani con il Kosovo l’altro fronte che si era aperto nell’Europa. La nostra generazione (lui ha 43 anni, ndr) non aveva mai visto la guerra, in quegli anni vedevamo aerei che passavano sulle nostre teste e la devastazione che eccidi e genocidi avevano portato nelle città dall’altra parte dell’Adriatico. Non potevamo rimanere indifferenti».
Dai conflitti armati, la serie sui Balcani, a quelli non armati, ma non meno laceranti per i paesi, in termini ambientali e sociali. Quando ha deciso di spostare l’obiettivo?
«Dopo l’esperienza nei Balcani e dopo aver incontrato vittime di quella guerra che non avevano più nulla e che quella guerra non la volevano perché la gente comune non la voleva. Ho capito che volevo indagare gli ultimi, le persone che non avranno mai voce in capitolo. E quindi ho cominciato a interessarmi agli ultimi del mondo, dagli sfruttati nelle miniere di zolfo alle condizioni dei minori in India. L’aspetto ambientalista è arrivato dopo. Ma c’è comunque un filo logico perché la distruzione dell’ambiente è anche la distruzione dell’umanità stessa».
Ecco detto così sembra tutto facile, ma nella realtà è un mestiere in cui non si ci può improvvisare. E in cui si corrono anche dei rischi. Basterebbe pensare a quando è arrivato a Fukushima dopo la tragedia.
«In effetti la mia preparazione su una missione inizia uno-due mesi prima, prendo informazioni, studio, ma poi spesso devi improvvisare perché sul luogo trovi cose che non ti saresti mai aspetto. Sono importanti i rapporti con i contatti locali, i fixer. Ma non bastano. I rischi ci sono come in tutti i mestieri. La passione e la volontà di realizzare un lavoro ti portano a superarli. Poi torno spesso sui posti perché voglio affinare ciò che ho fatto».
Bianco e nero o colori?
«Se il colore racconta la storia, come nel caso dello zolfo in Indonesia, scelgo il colore. Se è un elemento distraente, vado col bianco e nero che prediligo visto che arrivo dalla camera oscura, cui sono ancora fortemente legato».
Quali sono stati i suoi maestri?
«Il mio primo maestro è stato mio zio Alfredo che mi ha trasmesso la passione. I miei grandi maestri sono stati Walter Rosenblum, Naomi Rosenblum e Charles Henri Favrod. E poi resta sempre l’ammirazione per Sebastião Salgado».

 

 

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