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Libri/75 Il razzismo preso a pugni

Il mio articolo su “Trentacinque secondi ancora”, bellissimo libro di Lorenzo Iervolino, uscito su “Il Piacere della Lettura”, inserto culturale di Quotidiano Nazionale.

 

 

TRENTACINQUE secondi. Dal tunnel dello stadio al podio. Trentacinque secondi che hanno fatto un pezzo di storia. Una storia che non è solo sportiva. In quei trentacinque secondi Tommie Smith e John Carlos hanno deciso che cosa avrebbero fatto, appena saliti sul podio con le medaglie al collo. Erano le olimpiadi di Città del Messico, 1968. Con quei due pugni chiusi alzati verso il cielo – coperti da un guanto nero – e senza scarpe, per mettere in mostra i calzini neri, i due hanno “costruito” una foto che, secondo il Time, è tra le sei foto più influenti al mondo. Della loro storia si sa tutto su quegli istanti e molto poco di quello che accadde prima e dopo quel gesto che rivendicò l’orgoglio dei neri americani, il 16 ottobre 1968. Così Lorenzo Iervolino, scrittore che aveva già raccontato in maniera magistrale Socrates e la democrazia corinthiana, si è preso un anno per spulciare documenti, intervistare i protagonisti, quelli che sono sopravvissuti a quella stagione, e per scrivere “Trentacinque secondi ancora”, libro uscito per la casa editrice romana 66thand2nd (288 pagine, 23 euro). Per la cronaca: Tommie, ribattezzato Tommie Jet arrivò primo e John terzo. Ma su quel podio olimpico oltre ai due neri americani, c’era anche un australiano: bianco. Chi era quel bianco? Peter Norman. Lui prima di salire sul podio, si appuntò una spilletta alla felpa. Un gesto di solidarietà che avrebbe pagato caro, finendo nell’oblio anche nel suo Paese. Era la spilletta del Comitato Olimpico per i Diritti Umani. Il comitato che aveva creato Harry Edwards. DIRITTI umani, non diritti civili. Perché, parafrasando Malcolm X, come aveva spiegato lo stesso Edwars in quegli Stati Uniti lì, a fine anni Sessanta, i neri non potevano aspettare di vedersi riconosciuti dei diritti civili dai tribunali, se ancora non venivano trattati nemmeno come essere umani. Troppo evidente la discriminazione tra bianchi e neri nelle università. E non c’entrava che i college fossero in California – dove all’epoca il governatore era Ronald Reagan – o magari in un altro Stato considerato più o meno progressista. I neri – come denunciavano Smith e Carlos – erano visti come atleti da sfruttare per ottenere successi e visibilità, ma la loro condizione, nonostante i successi, rimaneva sempre la stessa. Carlos quando arrivò in Texas, si accorse di questa differenza evidente e stridente dai bagni. Eppure era il 1968, anno di speranze e rivolte, ma comunque un annus horribilis per gli Stati Uniti. Il re dell’amore, Martin Luther King, era appena stato ucciso. Come cantò in uno struggente pezzo – scritto in appena quaranta minuti dal suo bassista – Nina Simone. E Luther King profetizzò proprio con Edwars che quello di Memphis sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Subito dopo aver riconosciuto la forza del Comitato Olimpico dei Diritti Umani. «Se torno vivo da Memphis – aveva detto il reverendo King – prepareremo una grande marcia il giorno dell’inizio delle Olimpiadi, a Città del Messico». Non tornò vivo. E quella marcia, ovviamente, non ci sarebbe mai stata. Ma da più di un anno si parlava di boicottaggio delle Olimpiadi da parte degli atleti neri. Il comitato olimpico americano era allarmato. E Smith e Carlos continuavano a far capire che ci stavano pensando. POI, ottobre, il 16, le Olimpiadi, la gara dei duecento metri. Quelle due medaglie che – dopo quel gesto condannato dal comitato olimpico americano – le autorità sportive hanno cercato in tutte le maniere di ritirare. «Perché non erano atleti ma dei militanti». Loro sono riusciti a difendere quei due pezzi di metallo (oro e bronzo), senza evitare però di precipitare nell’abisso privato e pubblico: famiglie distrutte, porte chiuse dalle università e dallo sport per cui avevano scritto una pagina importante. Eppure quella foto, così iconica, ha resistito alla polvere e al fango. E ogni volta che c’è una protesta, come l’anno scorso nel football americano, rispunta fuori. Ma la storia di quella foto e le sue conseguenze sono molto più complesse di quel gesto in sé. E così dopo la fine del secondo mandato Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti, chiusa con il riesplodere della questione razziale, le parole di Edwars più che profetiche cristallizzano la situazione: «Non ci può essere una vittoria finale – riferendosi alla tardiva riabilitazione di Smith e Carlos (ora c’è una statua che ricorda quell’istante all’università di San José) – ma una lotta permanente. Jesse Owens, Tommie Smith e John Carlos? Non una vittoria finale. In fondo nemmeno il primo presidente nero degli Stati Uniti è stata una vittoria finale».

 

Lorenzo Iervolino

“Trentacinque secondi ancora”

66thand2nd editore

288 pagine 23 euro

 

 

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