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Mandela, l’icona pop dei diritti

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Il mio commento uscito sulle pagine di Qn (il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno) domenica 8 dicembre.

TRE ANNI per non dimenticarne ventisette. Chi era un bambino negli anni Ottanta aveva solo sentito distrattamente ripetere «Free Mandela». Poi capita che ci si imbatte in un disco in levare degli Specials, inglesi devoti alla musica ska. È il 1984, e si sente uscire dagli altoparlanti dello stereo qualcosa come «Free, Nelson Mandela». Ma chi è Mandela? Alle elementari, negli anni ottanta, non lo spiegano ancora. E se il tuo eroe calcistico dell’epoca, Ruud Gullit, prima di indossare la maglia del Milan (1987), sfodera una t-shirt con la scritta «Stop apartheid», c’è anche da chiedersi che cosa sia l’apartheid. E ritorna Mandela, perché Gullit—siamo già alla fine del 1987—dedica la vittoria del Pallone d’oro proprio a quel Mandela lì che—hai scoperto nel frattempo—trascorre da 24 anni le sue giornate in carcere. La storia di Mandela, inseguendo t-shirt con la sua faccia e con i suoi slogan, canzoni, libri, film e anche qualche «illuminato» calciatore (ne esistono) nelle sue dichiarazioni, è come un romanzo di formazione per chi ora ha superato abbondantemente la trentina.

L’IMMAGINE di Mandela e la foto della storica stretta di mano con De Klerk, sono qualcosa che rimangono impresse nella mente, non solo perché passano e ripassano in tv, ma perché rappresentano quella linea d’ombra che conduce al passaggio successivo delle età: l’adolescenza. Nel frattempo hai imparato che quell’uomo lì, che sta sulle t-shirt e nelle copertine dei giornali e dei libri e che viene citato sempre più spesso, è quello che ha reso possibile ciò che, fino a qualche anno prima, sembrava impossibile: che i neri abbiano gli stessi diritti dei bianchi e che, se eletti, abbiano anche il diritto e il dovere di governare un paese. Un’icona sì, ma in carne e ossa. Un’icona popolare, ma per una volta l’aggettivo non è usato al ribasso: si porta con sé invece, un concetto di condivisione globale.

Ecco, sapere che lui c’era e che non viveva solo nelle magliette e in citazioni da infilare in discorsi o scrivere sui diari o su qualche muro, era un sollievo perché riusciva a racchiudere una visione del mondo che non è solo speranza di cambiamento. Ma è il cambiamento stesso.

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